Da quando ho cominciato a fare cortometraggi e documentari, nel lontano 1994, mi è capitato più volte di fare la giurata a festival: dai più specializzati e di nicchia fino al festival di Torino (nel 2006, con il compianto, mai abbastanza apprezzato, dal sorriso disarmante, Corso Salani, con cui discutemmo tantissimo e alla fine premiammo qualcuno che ci metteva in vago accordo per miracolo). La settimana scorsa ho avuto l’onore di visionare i 21 piccoli film internazionali presentati al festival Arcipelago, storica palestra romana di giovani talenti. La qualità media era alta, la presenza di regie femminili in percentuale solida, non sarebbe stato facile assegnare i premi. Un corto svedese, girato da una donna, mi ha lasciato senza parole: estremo, violento, essenziale. Titolo in italiano Se mi lasci ora.

In medias res. Una bella ragazza coi capelli alla maschietta si bacia col fidanzatino per la strada. Dalla casa davanti arriva una melodia familiare eseguita alla fisarmonica: «per Elisa». È il canto d’addio di una madre che viene abbandonata dalla figlia per la prima convivenza fuori dalla famiglia. Un fatto umano, naturale, nell’ordine delle cose. Ma in questo piccolo film di 18 minuti nulla va per il verso della corrente del fiume…

La fanciulla entra in casa e trova la madre che suona. «Se mi lasci ora, mi uccido, non te ne andare». «Perché non vieni a dormire da noi?». «Non mi volete». La donna fa una sceneggiata napoletana tra il pentolame di cucina. Se la portano dietro. Nella nuova casa lui dorme sul divano. La figlia e la madre stanno accucchiaiate nel letto matrimoniale, in origine destinato alla coppia la loro prima notte da soli. La ragazza si sveglia. Trova di là il fidanzato in mutande che fa le flessioni per non uscire di senno. Effusioni amorose li portano a consumare l’atto sessuale sul pavimento. «Ci sentirà». Come da copione la madre li coglie in flagrante.
«È il giorno peggiore della mia vita e volete rispedirmi a casa». Lite a tre. La ragazza messa in mezzo, estenuata si accascia a piangere sul parquet. La madre la consola, l’accarezza, l’abbraccia. Il ragazzo va via nella notte.

La Grande Madre ha vinto. Sull’amore sensuale, sullo scambio con l’altro, sull’emancipazione personale. Una débâcle emotiva totale: il ribaltamento di ruoli madre figlia è talmente sballato da far venire il capogiro. Cosa salverà la giovane? Come potrà non soccombere al troppo amore materno? Riuscirà a liberarsi dai tentacoli omicidi di una madre depressa, dipendente mater dolorosa? Non so. Non vi sono risposte. Non esiste un’unica via di uscita dalle spirali labirintiche della vita. Chi vivrà vedrà.

Ma perché io – figlia unica di immolata madre artista auto-sacrificantesi – mi sento così solidale con la protagonista di Om du lämnar mig nu (If you leave me now) di Maria Eriksson? Chi lo sa.

«Lo sai che ho avuto te per non essere sola?». «Lo so, mamma». E la tragedia è compiuta.
(Nonostante la mia empatia il cortometraggio non ha vinto nessun premio, non conquistando altrettanto, forse, i due giurati uomini).

fabianasargentini@alice.it