Sono bastate meno di 24 ore perché un’insurrezione popolare rovesciasse, dopo le contestate elezioni di domenica, governo e presidente nella repubblica centroasiatica del Kirghizistan.

SUBITO DOPO CHE LA TV aveva annunciato l’esito del voto che dava vincenti i partiti sostenitori del presidente Sooronbai Jeenbekov, nella capitale Bishkek, intorno alla presidenza e alla sede del parlamento si andavano radunando i membri del partito socialdemocratico, erede formale del partito comunista e membro dell’Internazionale socialista. Il partito più vecchio del paese. che ha governato fino al 2017, denunciava giganteschi brogli ai suoi danni che gli avrebbero impedito di sedere nel nuovo parlamento e invitava i sostenitori degli altri 10 partiti esclusi a unirsi a loro. Ma a cambiare la situazione ci pensava «il popolo dell’abisso» della capitale, quella massa di proletari e sottoproletari che vivono nelle banlieue di Bishkek, che davano vita a una guerriglia che accendeva la notte della capitale.

I reparti antisommossa dopo ore di scontri in cui secondo l’agenzia kirghiza kloop.kr «hanno usato gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cannoni ad acqua, non sono stati in grado di fermare i manifestanti».

E COSÌ DOPO LA MORTE di un dimostrante il ferimento di altri 700, di cui 150 ospedalizzati, la polizia decideva di ritirarsi nelle caserme, non si sa se dietro indicazioni del presidente in carica o del ministero dell’Interno. Nella notte i manifestanti hanno fatto irruzione nell’edificio del Comitato statale per la sicurezza nazionale e hanno rilasciato l’ex presidente socialdemocratico Almazbek Atambayev e altri detenuti dello stesso partito e messo a sacco la residenza presidenziale. La mattina dopo entravano anche nella sede del parlamento e chiedevano, un po’ sbrigativamente le dimissioni del presidente giudicato corrotto, del governo, e l’indizione di nuove elezioni.

I poteri in carica in poche ore si scioglievano come neve al sole. La commissione elettorale dichiarava le elezioni non valide e si dimetteva. Seguita in poche ore dal governo, mentre la banca centrale decideva in via cautelativa di non distribuire contanti negli sportelli bancomat. Mentre isolato e al sicuro in qualche parte del paese il presidente Jeenbekov per ora non si dimette accusando in una intervista mandata in onda dalla Bbc Russia i suoi avversari di aver ordito un colpo di Stato, il popolo kirghizo sembra aver voltato pagina e pensare già al futuro.

Equidistante per ora la posizione del governo russo, primo partner commerciale del paese, che ospita milioni di migranti nelle sue grandi città europee ed è presente militarmente sul territorio con una base aerea. Una insurrezione questa – la terza in 15 anni – che mostra come la fase di assestamento politico del vicino oriente, dopo il crollo dell’Urss, non sia ancora conclusa. La Kirghizia è uno dei paesi più poveri della regione. Il reddito medio è di 1360 dollari l’anno, i poveri sono il 25,2”% della popolazione e molte famiglie vivono delle rimesse che i parenti mandano dalla Russia. Il paese è il più dinamico politicamente tra quelli centroasiatici e sono attivi oltre 20 partiti, mentre i sindacati malgrado la deindustrializzazine, organizzano ancora il 20% della popolazione.

PARADOSSALMENTE però è anche quello più arretrato da punto di vista civile: esiste ancora oggi, anche nella capitale, la consuetudine del “ratto della sposa” che prevede il rapimento delle donne costrette poi a sposare uomini sconosciuti.