Come uno dei suoi registi preferiti, Robert Aldrich, Walter Hill ha fatto dell’irriducibilità uno dei temi del suo cinema – l’arco dei suoi personaggi spesso compresso fino a scoppiare nello spazio/tempo minimo che sta tra il miraggio dell’alterità, della contaminazione con l’esterno, della salvazione, e l’inevitabile, malinconica, solitaria, spesso terminale, attuazione di se stessi. Già nel 1989, con Johnny Handsome, Hill aveva esplorato la storia di un uomo che cerca (invano) di cambiare il proprio destino (nella mitologia hilliana: il suo essere) con l’aiuto della chirurgia plastica. Interpretato da Mickey Rourke nel ruolo di un uomo Minotauro, Johnny Handsome era una freccia diretta al cuore dell’assunto, molto hollywoodiano, che la bellezza abbia una connotazione morale. Recuperando e riscrivendo una sceneggiatura di Dean Hamill che lo aveva colpito già negli anni settanta, con l’irriverenza/indocilità di un old timer per cui «far casino» è naturale come stiracchiarsi alla mattina, qui Hill torna sul tema e alza la posta strofinando il suo film contro uno dei dibattiti sull’identità più politicizzati del momento, quello sul gender.

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Elegantemente scassato come un Ulmer venato di Tod Browning, teso come Fuller, di cui Hill qui evoca l’energia cattiva, l’asfalto bagnato e le Chinatown, femminista come Blake Edwards (che, capendo tutto, in Switch aveva trasformato un uomo in una donna per «punirlo»), The Assignment (in uscita in Italia a maggio) è un intricato, densissimo, fumetto cubista, raccontato da due personaggi agli estremi opposti dello spettro della lotta di classe – un killer su commissione che si chiama Frank Kitchen e il medico folle che lo ha fatto rapire e, con un intervento chirurgico, lo ha reso donna per vendicarsi della morte del fratello depravato. E, in più, cambiandogli chirurgicamente sesso, per dargli un’opportunità di redimersi. Il classico «rifiuto della società», cresciuto rimbalzando tra istituzioni dickensiane e il brillante scienziato dell’alta società, che ama Poe, Shakespeare e Nietzsche e per cui Frank (o quelli del suo ceto) sono un corpo su cui operare e sperimentare a proprio piacimento.

È all’opposizione tra i due personaggi (che ricorda un po’ quella tra Clarice Sterling e Lecter), tra le loro origini e i loro destini che Hill, raffinato intellettuale, bibliofilo quanto cinefilo, sembra più interessato. Nell’identità inaddomesticabile di Frank una premessa che, politicamente parlando, solleva interrogativi interessanti, ma che è passata completamente in secondo piano rispetto alle polemiche che il film ha suscitato al momento della sua presentazione (l’autunno scorso, al festival di Toronto), per la questione del trapianto dei genitali. Rispondendo agli attacchi, Hill (che descrive affettuosamente il politically correct come «quei benintenzionati che vogliono proteggerci da ogni pensiero complesso») ha fatto notare che, proprio dal punto di vista pc, il suo film ha le carte in regola («perché conferma la tesi che il gender dipenda da come uno si sente, non dai suoi organi»). Ma il suo ragionamento non ha placato i critici, probabilmente offesi, più che dalla sua raffinata disquisizione filosofica, dalla trasposizione pulp di un soggetto oggi sacro.

Quel pulp, in The Assignment, il regista/sceneggiatore lo addotta con entusiasmo, ai limiti del cinema di exploitation, aiutato dai temi ipnotici e stridenti di Giorgio Moroder. Usata graficamente in The Warriors per introdurre il pubblico nella qualità mitica, iperreale, dell’avventura, la stilizzazione del fumetto, era una cifra delle prima sceneggiature di Walter Hill (Driver, Alien), tutt’oggi leggendarie per la sintesi espressionista del loro fraseggio. Fresco dal successo di due graphic novel pubblicate in Francia, Hill la re-introduce qui per avanzare il racconto e ovviare le ristrettezze di budget (il film è prodotto dal tunisino Said Ben Said, già dietro agli ultimi De Palma e Polanski).

Il titolo originale del film doveva essere Tomboy, che in inglese si riferisce alle bambine maschiaccio, ben più scherzoso di quello scelto dei distributori, e molto adatto ai contorni dolcemente androgini e al broncio cattivo di Michelle Rodriguez, l’attrice che Hill ha voluto per Kitchen. Il casting di Sigourney Weaver – con cui il regista voleva lavorare dal giorno in cui la fece scritturare per Alien – ha fatto sì che il dottore diventasse una donna, un po’ tomboy anche lei dietro alla camicia di forza.