Risuona ancora la musica di Steve Lacy, con il suo incantato sax soprano. La si può ascoltare nel cofanetto dedicato a uno dei suoi partner privilegiati, Mal Waldron, da poco edito dalla CamJazz (Mal Waldron volume 2. 11 cd set). Lacy duetta con il pianista afroamericano in Sempre Amore (1986) e Communiqué (1994), entrambi pubblicati dall’etichetta Soul Note di Giovanni Bonandrini (CamJazz sta realizzando una «complete remastered recordings on Black Saint & Soul Note»). Nel primo cd i temi sono quelli di Duke Ellington e Billy Straihorn mentre nel secondo le composizioni dei due leader si alternano a quelle di Elmo Hope, Charles Mingus e Thelonious Monk. Interamente dedicato a Monk è il solo album live Materioso, registrato nel 2001 dal materano Onyx Jazz Club (ancora in vendita presso l’omonima associazione che sta editando altri due soli, efettuati nella chiesa rupestre di S.Pietro Barisano).

RISUONANO ANCORA le parole – acute, problematiche, intelligenti – di Lacy nel volume curato da Jason Weiss Conversazioni con Steve Lacy (traduzione di Francesco Martinelli per ETS, pp. 313, euro 28). Il testo raccoglie 34 interviste rilasciate dal compositore e sopranista nell’arco di 44 anni (1959-2004, anno della scomparsa); evidenziano la rigorosa coerenza dell’artista come la sua instancabile ricerca all’incrocio dei linguaggi. Nella prima intervista (The Jazz Review, settembre 1959) un 25enne Lacy ha già chiarissimo qual è il ruolo di un jazzista: «è allo stesso tempo oratore, dialettico, atleta, matematico, intrattenitore, poeta, cantante, ballerino, diplomatico, educatore, studente, comico, artista, seduttore, esibizionista e, in genere, bravo ragazzo».
Musicista della complessità il sopranista lo è fin dall’inizio della sua carriera e manterrà la statura complementare di artista e intellettuale nelle numerose svolte dell’esistenza e nei lunghi periodi di permanenza in Europa, tra Roma, Parigi e – soprattutto – Berlino.

Oltre al tirocinio sulla musica monkiana, alla lucida analisi sulla considerazione del jazz negli Usa, alla costruzione di un organico sestetto, al rapporto simbiotico con i musicisti e con la moglie Irene Aebi (violoncellista e cantante), al rapporto con il jazz tradizionale e il free, con la committenza e la faticosa quotidianità, alla coscienza dell’agire politico dell’arte, il testo illustra un aspetto saliente della poetica di Lacy: quello della relazione tra poesia (letteratura) e musica.

IL JAZZISTA AMERICANO si  è confrontato con le parole di Lao Tzu (in un «ciclo del Tao») e anche, tra gli altri, di Anna Achmatova, Nanni Balestrini, William Burroughs, Elias Canetti, Robert Creeley, Gysin Brion, Jack Kerouac, Osip Mandel’štam, Taslima Nasrim, Marina Tsvetayeva. Lacy ha dialogato alla pari con la lirica contemporanea e si è rapportato con le arti figurative (da Klee a Rothko), la danza e  il teatro. Nei confronti delle liriche sostiene quanto segue: «Parto sempre dal testo. Ma le parole richiedono una lunga riflessione, che può durare anni. Può succedermi di riflettere su qualcosa per dieci o venti anni prima di capire cosa farci (…). È la musica che dà le ali alla parole. È una vera alchimia, dove tutto sembra misterioso, ma prima di tutto quello che conta è il tempo».

Steve Lacy – che ha vissuto precocemente il desiderio di inserire nel tessuto del jazz testi seri per i suoi brani –  ritiene che «tutta la musica viene fuori dalle parole» e che il jazz «viene dalla fraseologia». Ci ha, così, regalato album straordinari che vanno oltre il concetto di canzone e di poesia in musica, autentici scrigni in cui le parole si trasformano in musica e vibrano nella pienezza tridimensionale del loro suono/significato: The Way, Futurities, 10 Zen Songs, Rushes, Beat Suite… A dodici anni dalla morte non perde vigore la sua lungimirante visione dei rapporti tra le arti e tra queste e la società.