Esattamente trent’anni fa il sassofonista John Zorn, all’epoca trentaduenne, con un decennale passato di sperimentatore radicale, inizia le registrazioni di The Big Gundown, un album tributo alle colonne sonore di Ennio Morricone, con riletture ultra-avanguardiste, che subito riceve stroncature pesanti e al contempo apprezzamenti spassionati, imprimendo comunque una svolta epocale alla musica statunitense, perché fa «ufficialmente» conoscere a livello internazionale la Downtown Scene newyorkese, fino ad allora relegata a circuiti minoritari e nicchie alternative. Ma cos’è precisamente la Downtown Scene? Per dirlo occorre una breve premessa teorico-linguistica, benché, all’epoca, l’espressione non venga ancora usata né dal pubblico né da studiosi o cronisti.

In tal senso è abbastanza facile rilevare come nel vocabolario delle musiche urbane dal 1900 a oggi la critica lanci spesso espressioni o etichette, il cui destino può essere l’imperituro successo – il termine r’n’r, rock and roll, coniato dal dj Alan Freed per lanciare cantanti di rhythm and blues in radio – o al contrario il dimenticatoio o il travisamento a causa di modifiche di senso in prospettiva storico-critica. Sotto quest’ultimo aspetto l’elenco sarebbe lunghissimo, ad esempio la jungle music «inventata» da Duke Ellington negli anni Venti, oggi indica un settore della techno; oppure underground che, sul finire dei Sixties, è sinonimo di rock alternativo (sotterraneo, appunto), mentre oggi si riferisce a un sottogenere da discoteca. Un destino analogo succede ora all’uso gergale di Downtown Scene (letteralmente scena del centrocittà) che viene impiegato un po’ come una retrospettiva, dai giornalisti statunitensi a indicare via via il punk newyorkese, la successiva new wave e le tendenze più o meno giovanili che dagli anni Ottanta/Novanta a oggi ambiscono a un ruolo di ricerca, di rottura, di reinvenzione dell’immaginario contemporaneo, talvolta in stretto connubio con altri linguaggi performativi (qui ad esempio cinema, video, fotografia, danza, pittura, spray art).

Come ogni scuola, tendenza, manifestazione artistica, anche la Downtown Scene nella Grande Mela ha simbolici protagonisti, identificabili con persone fisiche, opere riconosciute, locali notturni, case discografiche; per iniziare da un caso emblematico è proprio la musica di John Zorn in quella seconda metà degli anni Ottanta a spopolare. Il biondo altista dall’aria un po’ nerd un po’ fricchettona infatti registra non solo The Big Gundown ma gli altrettanto influenti Spy vs Spy e Spillane, fonda il gruppo Cobra (al cui interno ruotano una ventina di celebri improvvisatori), si esibisce regolarmente alla Knitting Factory (aperta tra il 1987 e il 1995 al 47 di Houston Street), inizia a comporre i primi «Filmworks», debutta con la neonata Elektra Nonesuch (fusione di due label poi acquisite dalla Warner, non a caso nel momento della creazione della propria Tzadik, quale indipendente). È Zorn dunque a rappresentare al meglio la Downtown Scene in cui, allora come oggi, il jazz si apre al rock (persino grindcore e death metal) e alla contemporanea (minimalismo e noise music), in un coloratissimo ventaglio di situazioni inventive, che sono difficilmente riassumibili nella loro complessità. A partite dal 1985 seguono simbolicamente le orme artistiche di Zorn, in una sorta di originalissimo avant-jazz, almeno tre chitarristi americani nella Dowtown Scene: Elliott Sharp viene notato per l’attenzione a sperimentare, con sempre nuove tecniche esecutive in ogni suo album, mentre le composizioni sono un esempio di sintesi, dissonanza, ripetitività e improvvisazione sui quattro assi cardine di jazz, classica, rock, avanguardia; il funambolico Eugene Chadbourne mescola ingredienti di free jazz con aromi di musica bianca di origine rurale; Henry Kaiser invece raccoglie l’influenza di Derek Bailey e di Captain Beefheart per creare un sound connotato da improvvisazioni atonali e caratteri psichedelici, sino a progettare, assieme al trombettista Wadada Leo Smith (già caposcuola della creative music nera), il gruppo Yo Miles! dedito a radicalizzare ulteriormente le suite del Miles Davis più electro funk, rifacendo interamente alcuni storici album doppi del trombettista.

Nella Downtown agiscono anche molti artisti stranieri: parlando ancora di chitarre elettriche, dal 1979 è a New York, da Londra, Fred Frith, già leader del gruppo prog Henry Cow, ora attento a scandagliare un nuovo rumorismo. Per contro l’irlandese Christy Doran porta il proprio quartetto New Bag verso un jazz rock astratto. Anche il violoncellista Tom Cora, prematuramente scomparso, è responsabile di una serie di opere fortemente sperimentali in cui lo strumento adotta tempi e funzioni della chitarra (come pure delle percussioni). Nell’avant jazz il contributo numericamente maggiore resta ancora a stelle e strisce: il trombettista Lesli Dalaba contribuisce al rinnovamento linguistico del proprio strumento, con un mood che trasforma liricamente i brani più cerebrali. Il batterista Joey Baron debutta con un trio di musica imprevedibile assieme a Bill Laswell e Ellery Eskelin. Il Microscopic Septet è un gruppo creativo che scioglie influenze free, prog rock e rhythm and blues con elementi circensi, un po’ come Frank Zappa faceva anni prima.

Già a fine anni Novanta, c’è un’ennesima rivoluzione sulla Downtown Scene che si muove piuttosto tra post jazz e hyper fusion e che artisticamente riguarda sia il tipo di materiali sonori sia le tecniche per improvvisare. Vanno anzitutto citati quattro personaggi. In tal senso il pluristrumentista Ned Rothenberg è in prima linea con una nuova generazione di improvvisatori avanzati, usando spesso differenti tipologie di ancia per una lunga serie di lavori influenti nell’immediato futuro. Sam Bennett presenta opere in cui la sua batteria è l’unico strumento anche se integrato con l’elettronica spinta. Il trombonista Jim Staley sperimenta con diverse formazioni, mentre il sassofonista Marty Fogel lavora fondendo suoni postmoderni assai eterogenei. Ciò che si ascolta tra post jazz e hyper fusion è un campo vasto e multicolore in cui, come nel decennio precedente, scorrazzano altre sei figure rilevanti, a partire da Tom Varner, virtuoso del corno francese, il quale si erge compositore tra i più originali della propria generazione, mentre il fisarmonicista Guy Klucevsek offre un interessante contributo alla testa di versatili formazioni. Il bassista Marc Johnson, che lavora con Frisell e Scofield, sottolinea ulteriormente il linguaggio sincretista, mentre David Torn viene a colmare il divario che esiste nel mondo della chitarra tra Jimi Hendrix e Sonny Sharrock. Notevoli sono pure da un lato l’arte di violoncellista di Hank Roberts a incorporare elementi di free, soul, blues o musica classica e dall’altro quella di Mike Shrieve (ex batterista di Santana) con elementi onirici basati su suoni percussivi.

E si deve continuare a discutere sempre e ancora di Downtown Scene intendendo altresì il sound newyorkese che magari non rientra direttamente nell’avant jazz, nel post-jazz o nell’hyper fusion, ma che rifiuta ogni filologico revivalismo alla Wynton Marsalis, ma che assapora di continuo la voglia di sperimentare, fino a guardare oltre gli steccati intellettuali: sono Downtown Scene, in tal modo, ad esempio Jim O’Rourke, Jamie Saft, Christian Howes o la versatilissima violinista Regina Carter, ultimamente approdata a rivisitare il country bianco.

Se ancora ci si accosta a un jazz impegnato e oltranzista, allora la Downtown Scene è degnamente simboleggiata da Zeena Parkins che è la prima arpista a introdurre uno strumento in apparenza poco consono nel contesto dell’improvvisazione creativa in un suono poi seguito da molti altri, mentre lei continua a esplorare i contatti fra camerismo, improvvisazione e elettronica. Il flautista Robert Dick svolge un lavoro parallelo con lo strumento in differenti situazioni espressive, come fa anche ad esempio il trombonista Peter Zummo. Su versanti scoscesi agiscono poi altri quattro originali performer: da un lato il trombettista Toshinori Kondo a investigare i rapporti fra strumenti ed elettronica; e dall’altro il chitarrista Alan Licht lavora con suoni maggiormente psycho-anarchici tra dada e radical. Sul piano del solismo, tanto Denman Maroney introduce nuovi concetti pianistici, quanto il brasiliano Ivo Perelman, tenorista stabilitosi a New York, tributa duri omaggi alle proprie radici, incrociando Heitor Villa-Lobos e Albert Ayler.

E proprio partendo dai sodalizi con Zorn, vale inoltre la pena di ricordare l’escalation fra i grandi del jazz di almeno tre solisti già attivi negli anni Novanta ma che nel XXI secolo diventano simboli della Downtown Scene a tutto tondo: Uri Caine, pianista di formazione classica, esplora le sinergie tra melodismo colto e le dissonanze free jazz, non senza richiami talvolta al soul e alla dj culture; alla tromba Dave Douglas, già con John e nel 2015 con Joe Lovano in uno splendido album, vanta invece una prolifica carriera suonando un mix personalissimo di hard bop, new thing e rimandi classici; Tim Berne, sax alto, collega un fraseggio nevrotico con questioni dove i confini tra composizione e improvvisazione restano labili.
Alla fine del XX secolo, l’eredità del free jazz è ancora molto avvertibile nella comunità nera degli improvvisatori ancora una volta ascrivibili alla Downtown Scene poiché, nella Big Apple, ad esempio David S. Ware, sassofonista di scuola coltraniana, dopo la gavetta con Cecil Taylor e Andrew Cyrille prosegue una carriera da solista che si estende per decenni facendone uno dei solisti più significativi del recente movimento free collegabile a un sound futuristico. Craig Harris, irriverente al trombone, risulta anch’egli una figura importante così come il pianista Matthew Shipp, che, attraverso una lunga serie di album che appaiono nel corso degli anni, flirta anche con l’hip hop. Sulle loro tracce, ci sono inoltre le conferme di Don Byron nonché di Roy Nathanson e Curtis Fowlkes (entrambi già nei Jazz Passengers) e il successo del gruppo B Sharp Jazz Quartet proteso tra hard bop e free jazz.

La Downtown Scene negli anni Duemila è persino in grado di assorbire e rielaborare culture musicali eterogenee anche a partire da gruppi etnici o religiosi fortemente connotati. Si tratta, anche qui, di un sound modernissimamente jazzistico, che si estrinseca anzitutto nella cosiddetta «radical jewish culture», la quale è una realtà vasta e polimorfa, che si riconduce in primis alla musica klezmer così come si evolve lungo il Novecento in America. Ma la nuova musica ebraica si gira verso le contaminazioni, le fusioni, le sovrapposizioni del nuovo e del vecchio klez con scelte appunto più rivoluzionarie e massimaliste, purché facciano parte di una cultura ebraica (più laica-civile che mistico-religiosa) abbracciata dunque da musicisti eterogenei a partire dal «solito» Zorn. Circa dieci anni fa, infatti, John da un lato crea il quartetto Masada con Dave Douglas, Greg Cohen, Joey Baron, dall’altro fonda l’etichetta Tzadik per lanciare la «cultura ebraica radicale»: per essa registrano almeno un album a testa jazzisti come Jack DeJohnette, Steve Coleman, Cyro Baptista, Erik Friedlander, Julius Hemphill, il trio Martin Medeski & Wood, gli inglesi Evan Parker e Tony Oxley e l’italiano Gabriele Cohen. Oltre Tzadik, la radical jewish culture della Downtown Scene è lungamente rappresentata, da David Kracauer a Frank London, da Anthony Coleman a Ben Goldberg, dai Klezmatics a Andy Statman, oltre lo stesso Byron nel fenomenale tributo a Mickey Katz. Già dal 2000 si parla inoltre di asian-american jazz, perché nella Downtown Scene i vari Jason Kao Hwang, Jon Jang e Fred Ho (Cina), Ikue Mori (Giappone), Rusesh Mahharappa e Vijay Iyer (India), Susie Ibarra (Filippine) conoscono assai bene i linguaggi improvvisativi occidentali e al contempo vanno a fondo dei legami con le culture delle loro origini, fra visuali inedite e concetti innovativi.

Con loro, come già visto, l’idea binaria nero/bianco nella musica americana è ormai fuorviante, visto che un sempre maggior numero di asiatici di passaporto americano offre un contributo importante all’evoluzione jazzistica medesima. Ancora e sempre dalla Downtown Scene grazie a una label coraggiosa – la Moonjune di Leo Pavkovic – giunge la scoperta di una scena fusion in Indonesia con chitarristi di talento come Jeff Arwadi, Tesla Manaf, Tohpati, Dewa Budjana, Balawan – oltre Indra Lesmana (pianoforte), Windy Setiadi (fisarmonica), Ika Ratih Poespa e Sierra Soetedjo (entrambe cantanti) – spesso registrati a Giacarta oppure chiamati a suonare in America: frequenti le influenze, più o meno esplicitate, dei gamelan balinesi o di altre variegate sonorità di Giava o Sumatra.

Non manca tuttavia, proprio in anni recenti, una risposta indirettamente polemica nei confronti della Dowtown Scene: a New York, presso il Birdland Jazz Club, il 5 gennaio 2012 si tiene la prima conferenza organizzata dal movimento denominato BAM (Black American Music), nato dall’idea di alcuni musicisti di punta della scena mainstream (Nicholas Payton, Gary Bartz, Orrin Evans, Marcus Strickland, Ben Wolfe) che vorrebbe tutelare i canoni tipici della musica nera improvvisata (e non) rafforzandone un’identità che, a detta loro, sempre più spesso si disperde attraverso operazioni commerciali. Payton e compagni non vogliono rinnegare o sminuire altre musiche oggi annoverate sotto il termine «jazz», piuttosto cercare un altro termine che possa racchiudere la musica nera, la Black American Music, appunto e per loro Bam è la proposta che da allora a oggi ottiene un buon riscontro fra pubblico e critica.

Ma la querelle con la Downtown Scene estremista (avant jazz e dintorni) è forse solo un falso problema: non a caso il movimento Bam vanta l’inizio ufficiale proprio nel mitico Birdland – il locale patria di tutto il modern jazz dal dopoguerra a oggi – dove si ritrovano per l’occasione molti altri musicisti, nonché intellettuali, reporter, appassionati e operatori del settore. Gli adepti Bam sono pure animati da un profondo senso di appartenenza a un preciso ambito socioculturale e da un orgoglio etnico molto forte, benché, artisticamente, si rispecchino nell’amore incondizionato verso il jazz nero degli anni Cinquanta (lo stile degli ellepì Blue Note, per intendersi), nel periodo in cui esiste una forte contrapposizione fra bianchi e neri, tra il languido redditizio cool jazz e il nuovo pimpante hard bop afroamericano; ma sarà proprio quest’ultimo il retroterra necessario per ulteriori sviluppi avanguardistici (il free jazz in primis) che a loro volta coinvolgeranno musicisti europei in ottica sovversiva, democratica e internazionalista, anticipando la crescente realtà musicale multietnica, di cui la Downtown Scene, con o senza Bam, è ancor oggi l’espressione più compiuta e lungimirante.