La Storia, si sa, si scrive e riscrive continuamente e questo è un bene. Nuovi punti di vista, nuovi strumenti di analisi, accesso a fonti sconosciute consentono di correggere e a volte di ribaltare la nostra percezione di fatti e fenomeni storici. Ben venga dunque che una studiosa statunitense si occupi del jazz italiano. La musicologa Anna Harwell Celenza ha pubblicato Jazz all’italiana. Da New Orleans all’Italia fascista e a Sinatra (Carocci). Le premesse per uno studio interessante e innovativo ci sono tutte a partire al racconto delle reciproche influenze e degli scambi tra Italia e Stati Uniti.

UNA GENESI
L’analisi copre il periodo che va dalle origini del jazz fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale ed è stata propiziata da una lunga residenza dell’autrice in Italia.
Nel raccontare la nascita del jazz si evidenzia il contributo dei musicisti italiani, e in particolare siciliani, alla scena musicale di New Orleans. Il libro suggerisce un apporto musicale frutto delle musiche popolari del meridione senza però andare oltre la semplice citazione delle registrazioni sul campo di Alan Lomax e della tradizione bandistica. Peccato, perché proprio da una visione che connetta le influenze africane e arabe maturate nel bacino del Mediterraneo e poi portate a New Orleans via Caraibi e qui ibridate con le pratiche musicali degli afroamericani è possibile ricostruire la genesi del jazz.
Una genesi che deve la sua origine non solo dal rapporto tra Africa e Usa ma nella triangolazione di queste con l’Europa, in un processo che va in entrambe le direzioni. Altro tema intrigante è quello dell’emigrazione italiana che Celenza evidenzia in tutta la sua dimensione epocale. Purtroppo uno dei grandi rimossi della nostra coscienza nazionale è di non essersi mai percepiti come una nazione diasporica nonostante i numeri e la persistenza del fenomeno dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Sessanta. Il libro però accenna solo a questi temi per concentrarsi sulla tesi centrale di tutto lo studio: il jazz è stato riconosciuto dal fascismo come musica «indigena» e come tale sostenuto e promosso in prima persona da Mussolini; il declino del jazz italiano nel dopoguerra e la sua rimozione storiografica sono il risultato della caduta del regime e del desiderio di affrancarsi da tutto ciò che con esso si era compromesso.
E qui il libro frana miseramente. I collegamenti consequenziali su cui si erige l’impalcatura del saggio e cioè riconoscimento della funzione dei musicisti italiani nella nascita del jazz, la promozione del jazz sotto il fascismo e l’influenza di questo sullo stile di Frank Sinatra non reggono. Solo per restare a questa ultima tesi è francamente puerile e metodologicamente scorretto attribuire a Sinatra una filiazione stilistica dagli ascolti di Natalino Otto solo perché «potrebbe averlo sentito alla radio».
Piuttosto è evidente che il jazz sia stato qualcosa con cui fare i conti, la musica tanto amata dai giovani sui quali il regime puntava per edificare il nuovo tipo di italiano e che dunque andavano conquistati e incanalati verso il consenso alla dittatura attraverso un’abile politica fatta di controllo, repressione, propaganda ma anche ben sorvegliate concessioni. Entrando nel dettaglio, le fonti si basano in gran parte sulla fondamentale ricerca di Adriano Mazzoletti nel suo Il jazz in Italia: dalle origini alle grandi orchestre (Edt, 2004) ma quello che costituisce il cuore dello scritto sono le omissioni, le sottolineature, le conclusioni.
Nel tratteggiare il clima generale del fascismo l’autrice ne fornisce l’immagine di un regime paternalistico e bonario (si veda l’insistenza della frase «sotto l’occhio vigile di Mussolini»), senza autorevoli voci contrarie. Le uniche opinioni favorevoli al jazz citate sono solo quelle di fascisti, omettendo ad esempio quella del critico antifascista Massimo Mila. Volendo piegare alla sua tesi i fatti il volume giunge a esiti paradossali come quando, puntando a ribaltare l’opinione prevalente che vuole il jazz più amato dalla sinistra che dalla destra, arriva a estrapolare una frase di Antonio Gramsci lasciando intendere un presunto razzismo del pensatore sardo.
Se da un lato le opinioni ufficiali del fascismo, espresse sui suoi organi di stampa Popolo d’Italia e Critica fascista, esprimono una durissima condanna del jazz, le prese di posizione a favore tradiscono sempre un atteggiamento sulla difensiva come a dover giustificare ciò che ideologicamente è in perfetta contraddizione. Scambiare le politiche protezionistiche, peraltro presenti anche in Francia e Regno Unito, con la creazione di un «ecosistema» a favore del jazz è come minimo ingenuo come lo è non cogliere il danno enorme causato al jazz italiano dall’isolamento imposto dall’autarchia e dalla politica bellicista.
Come sappiamo la tolleranza, che indubbiamente c’è stata, si è accompagnata a censure ma più in generale a un’ostilità ideologica che si è venuta strutturando a partire dalla presa del potere, attraverso l’abbandono delle parole d’ordine rivoluzionarie degli esordi e l’assunzione di un conformismo frutto dell’alleanza con la chiesa cattolica come ha ben raccontato il saggio, di ben altro spessore, Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italiana (Le Monnier) di Camilla Poesio.
Dispiace che un argomento così rilevante e per certi versi ancora poco esplorato sia stato così malamente trattato. Sul rapporto del jazz con il ballo ci sarebbe un filone di ricerca amplissimo. Sta proprio in esso, oltre che nella canzone, l’enorme successo del jazz nel nostro paese. Più che nei proclami dei futuristi e nei loro festini, è nelle sale da ballo degli alberghi e nelle balere di provincia che gli italiani hanno amato e familiarizzato con la musica afroamericana. C’è tutta una storia del jazz nella musica da ballo da scrivere e che rivelerebbe quanto ha inciso profondamente nella cultura popolare.
Si pensi ad esempio alla diffusione dei fox-trot nei repertori di Secondo Casadei che li alternava a tanghi, polke e mazurke. Casadei introdusse nella sua orchestra strumenti presi proprio dal jazz come il banjo e la batteria, strumento che si identificava con quella musica a tal punto da averne assunto il nome. Nelle orchestre da ballo si è praticata un’ibridazione tra jazz e tradizione italiana che ha avuto influenza sul gusto popolare e ha rappresentato più di quanto si è portati a pensare la nostra «età del jazz». E seguendone il filo si potrebbe più proficuamente trovare risposta al declino postbellico del jazz come musica di massa, come avvenne d’altra parte anche negli Stati Uniti.
FUORI I LIBRI
Per gli studi sul jazz in Italia fondamentali sono i testi di Adriano Mazzoletti, che se ne occupa dal 1965. Parliamo de Il Jazz in Italia. Dalle origini alle grandi orchestre e Il Jazz in Italia. Dallo swing agli anni sessanta. Due volumi (Edt 2004, pp. 631; Edt 2010, pp. 849). In essi Mazzoletti ha scandagliato tutte le fonti possibili e intervistato centinaia di musicisti, fornendo un quadro dettagliatissimo. Notevole è anche L’Italia del Jazz (S. Mastruzzi Editore 2011, pp. 272 in grande formato), un libro fotografico con agili quadri che arriva ai giorni nostri. Importante è, inoltre, Jazz e fascismo. Dalla nascita della radio a Gorni Kramer di Luca Cerchiari (L’Epos 2003, pp.176). Notevole per il suo rigore documentario e la chiarezza trasversale dell’analisi Tutto è ritmo, tutto è swing. Il Jazz, il fascismo e la società italiana della storica Camilla Poesio (Le Monnier 2018, pp. 175). (la scheda sui libri è a cura di Luigi Onori)