In un saggio giovanile del 1926 Ranuccio Bianchi Bandinelli se la prese con la policromia delle terrecotte etrusche che – affermò senza mezze parole – «ci offende con la sua violenza». Chissà se il grande archeologo avrebbe detto la stessa cosa davanti agli straordinari materiali della mostra Colori degli Etruschi. Tesori di terracotta che fino al 2 febbraio resterà aperta alla Centrale Montemartini di Roma (catalogo edito da Gangemi, pp. 256, e 34,00).
A monte di questo evento espositivo c’è l’eccezionale recupero effettuato nel 2016 dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio culturale – quello reso famoso dal Generale Conforti, da poco scomparso – nel porto franco di Ginevra: ben 45 casse zeppe di reperti archeologici trafugati illegalmente dal nostro paese, fra i quali oltre mille frammenti di lastre dipinte. La loro tipologia ne denuncia senza ombra di dubbio la provenienza da Cerveteri (l’antica Caere), la città che lo storico Dionigi di Alicarnasso definì «la più prospera e popolata dell’Etruria». A detta di Plinio il Vecchio ancora ai suoi tempi (I sec. d.C.) esistevano a Caere pitture più antiche di quelle note a Roma e di grande perfezione.
I materiali ora esposti a Roma (una prima mostra era stata allestita l’anno scorso nel Castello di Santa Severa) danno ragione a Plinio e ampliano in modo tanto spettacolare quanto insperato la conoscenza di una produzione artistica finora nota da poche testimonianze, perlopiù finite fuori d’Italia (al Louvre, al British Museum, nei musei di Berlino, nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, al Getty). Si tratta di panelli di terracotta policroma – datati tra il 530 e il 480 a.C. – che, giustapposti a formare dei fregi continui (sui bordi di molti frammenti sono dipinti dei numeri che servivano al loro assemblaggio), erano in origine applicati alle pareti di costruzioni di prestigio (edifici pubblici e dimore gentilizie, prima ancora che tombe), secondo un uso importato dalla Grecia. Sappiamo del resto che il nobile corinzio Demarato si era trasferito verso la metà del VI sec. a.C. in Etruria e che al suo seguito c’era anche il pittore Eugrammos (in greco: ‘colui che dipinge bene’). È possibile che sia stato quest’ultimo a far conoscere localmente la tradizione corinzia delle lastre dipinte.
Le lastre recuperate sono opera di botteghe ceretane. Uno dei nuovi frammenti reca il nome – purtroppo incompleto – del pittore: su un’iscrizione in caratteri etruschi incisa prima della cottura si legge: Nella (casa/officina) di Satharas io, Mur [— (ho fatto). Si può ipotizzare che l’artista lavorasse per conto dell’aristocratico il cui nome viene citato per primo.
Per due anni gli archeologi della SABAP (Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale) hanno ricomposto con pazienza certosina i frammenti sequestrati (i pezzi interi saranno stati purtroppo venduti subito) e i risultati sono entusiasmanti.
Le lastre ci restituiscono, con una gamma cromatica a volte inusuale e per ciò stesso seducente, un repertorio di temi legati all’immaginario delle élites della metropoli tirrenica, che amavano mostrare la loro adesione ai modelli culturali greci. Fra i temi mitologici compaiono l’uccisione di Medusa da parte di Perseo e le fatiche di Eracle (il grande eroe civilizzatore che si guadagnò l’ammissione fra gli dèi per i suoi propri meriti), in una versione più antica rispetto a quella canonizzata verso il 460 a.C. dalle metope del tempio di Olimpia. Ci sono anche rappresentazioni di fanti e cavalieri in armi, come si conviene a una aristocrazia arcaica che faceva del guerriero una figura sociale preminente.
Un frammento di quelli sequestrati a Ginevra ‘attacca’ con un altro ancora conservato a Cerveteri: prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, della sua provenienza e autenticità. Ci sono poi scene di gare atletiche, altra attività appannaggio dei ceti acculturati. Non mancano le scene di danza e quelle riconducibili al simposio, un costume greco di cui l’alta società etrusca fece uno status symbol. Ritroviamo in qualche modo in queste immagini quella ‘gioia di vivere’ che – un po’ corrivamente, per la verità – siamo soliti associare agli Etruschi.
Il rientro delle terrecotte trafugate in Svizzera è stato accompagnato da quello di analoghi reperti dalla Danimarca, reso possibile da un intelligente accordo con la Ny Carlsberg Glyptotek. È un’opportunità unica vederli ora esposti qui insieme ad altri restituiti dal Getty.
La mostra è stata curata da Claudio Parisi Presicce (Soprintendenza Capitolina), Alfonsina Russo (Parco Archeologico del Colosseo), Leonardo Bochicchio, Daniele Federico Maras e Rossella Zaccagnini (SAPAB). L’allestimento, sobriamente elegante, si inserisce in maniera non stridente negli spazi del museo della Via Ostiense, che col suo unico mix di arte antica e archeologia industriale resta uno dei più affascinanti della capitale. Chi ancora non lo conoscesse approfitti di questa occasione per visitarlo.