A Parigi, in un pomeriggio del 1840, Heinrich Heine incontrò l’amico francese Théophile Gautier, il quale gli disse che stava per partire per la Spagna, dove in qualità di corrispondente avrebbe raccontato la guerra carlista; di rimando, il poeta tedesco, gli chiese malizioso: «Come farete a parlare della Spagna una volta che ci sarete stato?». La battuta allude alla relativa autonomia dell’elaborazione letteraria e artistica dalla conoscenza effettuale della realtà: in fondo, come si sa, Emilio Salgari non vide mai il mar di Giava e l’arcipelago malese, e James Fenimore Cooper non viaggiò mai nella valle dell’Hudson fra le tribù dei Mohicani. Qualche anno dopo, Gautier avrebbe effettivamente pubblicato il suo Voyage en Espagne, un libro decisivo per la costruzione dell’immagine romantica della Spagna, capace di fissare elementi di riconoscimento simbolico basati su un rapporto con la realtà al tempo stesso metaforico, analogico, e persino mitico.

Una tesi innovativa
Oggi la Spagna è un paese pienamente europeo, la cui immagine dominante coincide con la rutilante, popolare esperienza delle sue città turistiche: dalla movida madrilena alle fiestas sivigliane, al nuovo orgoglioso skyline di Barcellona. E tuttavia, nella sensibilità collettiva spagnola esistono tratti nascosti, elementi inesplorati. Uno di questi caratteri, finora misconosciuto, è al centro di un libro dello scrittore aragonese Sergio Del Molino, La Spagna vuota Viaggio in un paese che non c’è mai stato (traduzione di Maria Nicola, Sellerio, pp. 396, e16,00). Il successo riscosso in Spagna fa pensare che abbia toccato una corda al tempo stesso ineffabile e molto concreta, al cuore di ciò che l’antropologo greco-statunitense Michael Herzfeld chiamerebbe «intimità culturale».

La tesi proposta ha carattere innovativo: siamo abituati, pensando alla Spagna, a immaginarla figlia della guerra civile o del regime franchista, e d’altra parte divisa tra potere centrale madrileno e sistema delle autonomie. A queste due polarità Del Molino ne aggiunge una terza, quella tra la Spagna urbanizzata e «moderna» e quella rurale, arcaica, disabitata e «vuota», che deriva da un universo contadino andato in frantumi tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, quando enormi masse fuggirono dai campi per venire ad abitare in città: un gigantesco esodo, che egli chiama il «grande trauma».

Lungo le carreteras
A sostegno della sua tesi, Del Molino presenta una sorta di reportage dedicato alla messa in evidenza di un dato noto ma spesso trascurato: la Spagna è un paese relativamente poco popolato rispetto alla sua grandezza, considerevolmente più esteso della Germania che però ha quasi il doppio di popolazione, o dell’Italia, molto più piccola e molto più abitata. Solo la Francia è un po’ più grande, ma col 38% in più di popolazione. Nella «Spagna vuota», un territorio pari a metà della superficie del paese, abita solo il 15% della popolazione, appena 7 milioni di persone, distribuite su un gigantesco altopiano arido, la Meseta, che si estende per buona parte della Castiglia, dell’Aragona, dell’Estremadura e dell’Andalusia. Uscendo da Madrid in una qualunque delle grandi carreteras che si aprono a ventaglio per il paese, si incontra presto un territorio che appare deserto quanto a presenze umane: coltivazioni estensive a perdita d’occhio conformano un paesaggio nudo, senza alberi, in cui si stagliano solo le enormi sagome nere dei tori che fanno pubblicità all’azienda vinicola Osborne.
Una volta fissati così i termini del problema, Del Molino si dedica al difficile compito di analizzare gli elementi che conferiscono a questa «Spagna vuota» una problematica identità. E parte dall’esperienza (e la memoria) dello sradicamento da un luogo dell’interno da cui la famiglia di Del Molino è emigrata. Inoltre, certo, ci sono le comunicazioni tra coloro che si sono urbanizzati e coloro che sono rimasti nei piccoli centri rurali – perché impossibilitati a partire o perché hanno deciso di restare; relazioni difficili, segnate da un mutuo parallelo sospetto, quella eterofobia che è paura dell’altro.

In un passo del romanzo di Miguel Delibes, Per chi voterà il signor Cayo? questa persistente diffidenza viene così spiegata: «Noialtri, i furbetti della città, abbiamo fatto scendere questi tizi dall’asino col pretesto che era un anacronismo…e li abbiamo lasciati a piedi (…) Non siamo stati capaci di capirli da tempo e ora non è più possibile, parliamo due lingue diverse».
A tratti l’opinione pubblica si ricorda dell’esistenza della «Spagna vuota», ma quando accade è generalmente perché qualcuno viene ucciso brutalmente, quasi sempre per miserabili inezie. Riemerge allora un paese altro, affascinante e barbaro, che funge da luogo mitico, oscillante fra memoria e reinvenzione, fra il «come eravamo» e il fulcro dei mali atavici del paese.

Per scandagliare questi territori Del Molino abbandona la prospettiva empirista, convinto che il paesaggio non esista se non come creazione di un immaginario nutrito dalla letteratura: il suo difficile e rapsodico esercizio di ricostruzione culturale si addentra nella rappresentazione romantica della Spagna dell’interno (come nelle poesie di Bécquer) sfociata negli anni settanta del XIX secolo nella «religione dell’escursionismo»; poi analizza la rielaborazione in chiave nostalgica di ispirazione nazionalista della «generazione del ’98» e giunge infine alla denuncia, da parte della cultura progressista, dell’oppressione e della miseria delle campagne, di cui è emblema insuperato il documentario surrealista Terra senza pane di Luis Buñuel, datato 1932. Quella degli anni Trenta era l’epoca delle missioni pedagogiche organizzate dal governo repubblicano nelle comarche rurali e nelle zone dell’Estremadura rappresentata surrealisticamente da Buñuel, che divennero simbolo della urgenza sociale. Sarebbero poi arrivati i piani del governo franchista per lo sviluppo delle aree arretrate, e le riforme decise da Popolari e Socialisti: ciascuno proiettava sulla Spagna vuota i propri stilemi ideologici.

Chiavi immaginarie
Accattivante e immaginifico, il rapsodico libro di Del Molino è brillante e ben scritto ma anche programmaticamente disordinato, senza un filo conduttore. Accade perciò che si resti colpiti da quel che c’è (temi suggestivi, come la pervasività rurale della tradizione carlista e le sue torsioni culturali) e anche da quel che non c’è (l’immagine complessiva del paese a confronto con la modernità).
Del tutto condivisibile, invece, la considerazione secondo cui la «Spagna vuota» è stata sempre raccontata dall’esterno mentre oggi tra i giovani si viene producendo una narrazione inedita: in molte case spagnole, osserva Del Molino, ci sono chiavi immaginarie, che continuano a passare di mano in mano per generazioni, promettendo di aprire un mondo altro, un paese primigenio immutato nel tempo, vicino e lontano, fantastico eppure a suo modo reale: la «Spagna vuota», appunto.