Berlusconi torna dalla campagna di palazzo Chigi con il carniere quasi vuoto e un partito traversato da malumori che, se pure non emergeranno subito, sedimenteranno in breve tempo. Ha avuto quel che voleva: il governo di larghe intese. Però non lo ha avuto come lo voleva e come ha cercato di modellarlo sino all’ultimo secondo, andando però a sbattere contro un presidente della Repubblica che sa come tenerlo sempre sotto tiro. Le sue dimissioni, a questo punto, comporterebbero il ritorno del peggior incubo: il Colle in mano ai suoi nemici giurati.

Dopo le 24 ore di passione nelle quali il Pdl aveva gettato sul piatto addirittura la candidatura al ministero dell’Economia del gran capo, più come strumento estremo di pressione che come ipotesi realistica, ieri mattina il centrodestra si è trovato alle prese con un rebus solo parzialmente risolto. Le linee generali erano ormai chiare: giovani, donne, facce poco note, nessun esponente di primissima linea né da una parte né dall’altra e neppure dalla terza, quella per nulla inappetente dei montiani.

Benissimo, la strada sembra in discesa, il giuramento in giornata pare certo. Però restano in sospeso un paio di particolari per nulla secondari: i due ministeri chiave dell’Economia e della Giustizia, ai quali se ne è aggiunto un terzo altrettanto pesante, quello degli Esteri, vacante dopo la brusca fuoriuscita di Massimo D’Alema, e poi il solito chiodo fisso dell’Imu, strettamente collegato all’indicazione per via XX Settembre. In più resta inevasa la necessità di marcare il territorio con un nome, almeno uno, che connoti palesemente la presa di Berlusconi sull’esecutivo nascente.

La giostra riparte. Riunione delo stato maggiore a palazzo Grazioli, e di lì a palazzo Chigi, dove zio Gianni si presenta con Berlusconi e Alfano per fare il punto insieme a Enrico, il nipotino prodigio. Non è un incontro sereno, anche se all’uscita i convenuti cercheranno di farlo sembrare tale. Berlusconi tira fuori dal cilindro l’idea balzana di Antonio Tajani alla Farnesina, continua a trastullarsi con il miraggio, nel quale probabilmente non crede più nemmeno lui, di Brunetta in un ministero economico. Per la giustizia boccia Vietti, che viene pur sempre dai traditori dell’Udc e certe cose non si dimenticano. Molto meglio Violante, che non è proprio di primo pelo ma lo si può conrtrabbandare comunque nel governo dei freschissimi in quanto componente della commissione dei saggi di Napolitano.

Quella che, sulla carta, ha buttato giù le linee generali del programma di governo.
L’incontro è lunghissimo e teso. Letta fa muro, Bersani gli dà man forte con una dichiarazione minacciosissima: «Il governo non deve nascere per forza». La cavalleria però corre in soccorso non dal Nazareno ma dal Colle. Napolitano mette sul tavolo tutto il suo peso, in questo momento determinante.

Quando Letta annuncia la salita al Colle per le 15 la partita pare chiusa. Invece ci vogliono altre due ore e numerose telefonate. Il presidente incaricato porta con sé al posto della lista dei ministri una bozza, che verrà modficata sostanzialmente proprio in quelle due ore. Quel che non aveva già ottenuto nelle 24 ore di braccio di ferro,

Napolitano lo incamera nel rush finale: all’Economia va il suo candidato, sul quale pesava il veto di Berlusconi, Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia, uno che prima di ritoccare l’Imu ci penserà 10 volte, a restituirla non ci penserà proprio. Enrico Giovannini, un altro dei suoi “saggi”, prende il Lavoro. Il guizzo finale piazza due nomi di alto gradimento sul Colle anche agli Esteri, con donna Emma, e soprattutto alla Giustizia, appaltata al prefetto Cancellieri. Fosse una partia di bridge, si dovrebbe parlare di grande slam.

Nel discorso ai giornalisti con cui chiude la partita, Giorgio Napolitano assicura che a formare il governo non è stato lui ma il presidente incaricato e sottolinea che si tratta di un governo politico, senza ulteriori definizioni. Frasi che vanno lette al contrario esatto: quello che giura oggi è un governo costruito da lui ed è quanto altri mai un governo del presidente. Cioè suo.