Lo mostrano studi di singoli e di istituzioni: Veneto, Lombardia e poi le altre regioni del centro-nord, in virtù della distribuzione differenziata delle risorse fiscali, frantumeranno il tessuto unitario.

Nel mirino i servizi pubblici (scuola, sanità, trasporti, assistenza agli anziani, ecc), con l’obiettivo di dissolvere l’unità nazionale. L’anno prossimo le regioni a statuto ordinario compiranno mezzo secolo dalla loro istituzione e paiono intenzionate a celebrare la ricorrenza con il disfacimento della compagine unitaria dello stato repubblicano. E’ del resto con il controllo parlamentare, e quindi unitario e collettivo delle risorse fiscali, che sorge lo stato moderno ed è con il loro uso territorialmente differenziato che lo si dissolve. Si potrebbe anche non fare un dramma di tale prospettiva, se l’Italia, paese cosmopolita sin dalle suo origini, avesse la prospettiva di approdare a una superiore unità europea. Ma è davvero alla portata una tale prospettiva? E’ credibile in questa Europa regredita ai feroci nazionalismi del ‘900? E l’Italia avrà più carte in mano nelle ipotetiche, future trattative europee, presentandosi frantumata nei propri particolarismi regionali?

Come Osservatorio del Sud siamo impegnati a creare iniziative e dibattiti nel territori del Sud per l’8 febbraio, (ma sperando di continuare oltre, come faremo ad esempio a Bologna) con un vari incontri che si svolgeranno a Bari, Caserta, Catanzaro, Cosenza, Palmi, Reggio, Salerno e che avrà un momento importante di riflessione alla Sapienza di Roma, con il presidente dello Svimez, Adriano Giannola, Guido Pescolido, Gianfranco Viesti, Leandra D’Antone,Umberto Gentiloni, Emanuele Bernardi e il sottoscritto. Non mancano, infatti, al Sud, (ma anche al Nord, in condizioni difficili) tra le varie forze, dalla Cgil all’Anpi, dai militanti di Sinistra Italiana e di Rifondazione comunista, a tanti giovani del Pd, alle associazioni culturali, le voci di allarme per quel che accadrà alla sanità meridionale, già in grande affanno rispetto agli standard del centro-nord, alle scuole e alle Università, sempre più sottofinanziate ed emarginate rispetto al resto del Paese. Ma se siamo incoraggiati dalla sensibilità e dall’impegno che ritroviamo in tanti ambiti della società civile, non possiamo tacere su una dato che sino a oggi ci sembra di estrema, incredibile, inaccettabile gravità: il silenzio dei presidenti delle regioni meridionali. Si tratta di un fenomeno politico di prima grandezza, da denunciare all’opinione pubblica nazionale per la sua enormità. Per il passato storico e per le prospettive future.

Per il passato, perché i governi delle regioni meridionali sono responsabili del fallimento storico di una delle più importanti riforme dello stato repubblicano. Il decentramento regionale avrebbe dovuto avvicinare i cittadini allo stato, accorciare le distanze gerarchiche tra governanti e governati. Nel Sud, di fatto, ha avvicinato il ceto politico alle risorse pubbliche, creando fortune clientelari di correnti e capipartito, e contribuendo in parte anche all’erosione dell’etica pubblica dei partiti politici. Essi, insieme per la verità ai governi di tante altre regioni del centro-nord, non solo sono in buona parte responsabili della crescita del nostro debito pubblico, ma hanno mostrato (tranne alcuni casi virtuosi come la Puglia di Vendola e l’Abruzzo) una clamorosa incapacità di gestire le risorse pubbliche all’interno dei nuovi meccanismi di erogazione creati dall’Unione europea. Con grave danno alle popolazioni meridionali.

Oggi, di fronte alla minaccia così grave di una legge che apre prospettive fosche di regressione sociale e civile al nostro Mezzogiorno, di dissoluzione dei vincoli che hanno tenuto unito il Paese, i governati meridionali tacciono. Pensano di avvantaggiarsi incamerando, a loro volta, una maggiore autonomia dallo stato centrale? Sperano di avere mani libere e continuare, con più agio, con maggior potere sui comuni, a perseguire le proprie personali fortune politiche?