La Banca Europea per gli Investimenti (Bei), il braccio finanziario dell’Unione europea, dalla fine del 2021 non investirà più nelle energie fossili, gas compreso, e dirotterà i suoi fondi verso fonti rinnovabili e progetti di efficienza energetica. Si tratta di una svolta storica per la finanza del clima, per l’Ue e i suoi stati membri che per decenni con una mano hanno firmato convenzioni e accordi contro i cambiamenti climatici, e con l’altra hanno concesso prestiti per la costruzione di oleodotti, gasdotti e impianti petroliferi.

SOLO LO SCORSO ANNO la Bei aveva prestato 2 miliardi di euro in progetti legati a fonti energetiche fossili, dal 2013 al 2018 erano stati 13,4 i miliardi. Nello stesso periodo, in compenso, la Bei aveva destinato 65 miliardi a favore di rinnovabili e progetti di efficienza energetica.
Nella lista dei progetti finanziati dalla Bei c’è anche il Tap, il gasdotto Trans Adriatico che approda sulle coste pugliesi, per cui ha stanziato 1,5 miliardi euro. «Non sappiamo se la Bei erogherà o meno i prestiti al Tap dopo questa sua decisione – dice uno dei portavoce del movimento NoTap, Gianluca Maggiore – certo è che questa decisione per noi è una grande vittoria perché dimostra come questa infrastruttura contro la quale ci battiamo nasca già obsoleta, già superata».

LA DECISONE DELLA BEI era attesa lo scorso mese, però è stata posticipata a ieri a causa di divisioni tra paesi membri, gli azionisti della banca, in particolare Germania, Polonia e Italia, che però alla fine ha votato a favore della svolta. Nel suo nuovo corso, la Bei, che è la più grande banca pubblica di investimenti, ha annunciato che destinerà un trilione di euro nel prossimo decennio per finanziare azioni a favore del clima e della sostenibilità ambientale e per rendere le proprie attività finanziarie coerenti con gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi.

La Bei ha fissato i 5 principi guida della sua nuova politica dei prestiti in campo energetico: efficienza; decarbonizzazione (per arrivare al 32% di rinnovabili nell’Ue entro il 2030); supporto alla produzione decentralizzata di energia, allo stoccaggio innovativo e alla mobilità elettronica; supporto alle reti di energia intermittente come solare ed eolico e alla trasformazione delle fonti energetiche anche fuori dall’Europa. La svolta è ambiziosa, un «grande balzo» l’ha definita il presidente della Bei Werner Hoyer, sottolineando come già da molti anni la banca delle Ue sia «la banca del clima dell’Europa», per aver già escluso nel 2013 prestiti a impianti a carbone. Però il suo vicepresidente, Andrew Mc Dowell, con delega all’energia, si esprime diversamente e lascia spazio a più di un dubbio su cosa si intenda davvero per fine dei finanziamenti alle fonti fossili: «Le emissioni di anidride carbonica dall’industria globale dell’energia hanno raggiunto un nuovo record nel 2018. Dobbiamo agire in fretta per contrastare questo trend. La nuova politica dei prestiti che abbiamo adottato è una tappa fondamentale nella lotta contro il riscaldamento globale. Dopo una lunga discussione abbiamo raggiunto il compromesso di tagliare i finanziamenti ai progetti basati sui combustibili fossili unabated».

Unabated, nel linguaggio tecnico della geoingegneria, si riferisce ai grossi impianti industriali che non sono dotati della tecnologia Ccs (Carbon Capture and Storage), ovvero in grado di catturare e stoccare in formazioni geologiche sotterranee grandi quantità di CO2. Quindi sorge il dubbio che invece gli impianti che si doteranno della tecnologia Ccs – per lo più saranno grandi centrali termoelettriche a gas e a carbone – verranno ancora finanziate dalla Bei.

IL CCS è una delle tecnologie più controverse da mettere in campo nella lotta ai cambiamenti climatici. A parte i problemi legati alla sicurezza (la CO2 catturata va stoccata nel sottosuolo per sempre), e dubbi sulla effettiva efficienza del sistema (che ha bisogno di enormi quantità di energia per funzionare), è un approccio che non risolve alla radice il problema perché continua a fare affidamento sulle fonti fossili.

Nel mondo sono solo cinque gli impianti già operativi, 3 in Canada e 2 in Norvegia, mentre decine di progetti si stanno sviluppando in altri paesi con fortune alterne. In Italia la tecnologia sarebbe dovuta entrare in funzione alla centrale termoelettrica di Porto Tolle, sul Delta del Po, ma il progetto è stato ritirato sia per problemi di autorizzazioni sia per difficoltà finanziarie, quello della centrale del Sulcis compare sempre nel piano strategico della Regione Sardegna, ma risulta in standby, mentre quello della centrale di Brindisi (che proprio ieri il presidente della Regione Puglia Emiliano ha definito la «capitale del gas») risulta in fase sperimentale da diversi anni.