A proposito di Bruno Maderna, Luciano Berio, cita un’immagine alquanto bizzarra inventata da Pierre Boulez. L’autore di Sur incises vedeva il compositore veneziano come una scimmia che elegantemente saltava da un ramo all’altro di un grande albero. Fuor di facile ironia e ricollocando nella realtà la metafora di Boulez, il grande albero, cioè la musica, non faceva altro che riconsegnare al lettore, nel caso del ritratto di Berio, un Maderna, capace di azzerare le distanze dal suo essere, secondo la generosa e proverbiale disponibilità, didatta, compositore, direttore d’orchestra e organizzatore. Tale figurazione, altamente letteraria, sembra essere stata tracciata da Boulez a beneficio di un se stesso di là allora da venire ed oggi, a novant’anni compiuti, rischiarato da una irripetibile carriera e attività artistica.

Dunque, la sua è un’autobiografia per procura che si principia nei suoi inizi di compositore in bilico tra le suggestioni ornitologico- spirituali di Olivier Messiaen e il dodecafonismo schoenberghiano in salsa leibowitziana: prelevati e sistemati, a partire dal ritrovato Douze notations del 1945, nel magnifico programma, approntato al Teatro alla Scala, con i pianisti Pierre-Laurent Aimard e Tamara Stefanovich, da Milano Musica per festeggiare il suo compleanno. Tutto accade proprio nell’anno in cui è proprio Maderna ad essere monografato in tutti i suoi aspetti poco innanzi citati, tra i quali l’ultimo che in modo inedito e postumo trova pieno impatto nella “riscoperta” dei manoscritti bouleziani: acquisiti dal vigile curatore dell’evento Ralph Fassey, collezionista e cultore di “cose” musicali prestato al management farmaceutico, ma capace d’intrattenere feconde relazioni con artisti del calibro di Stochkausen (le lettere che scambiò giovane con lui adornano un bel libro dell’Archinto editore) e di Nureyev.

Questa la sommaria ricostruzione di un ipotetico “dietro le quinte” di uno straordinario evento che ha scodellato alla prova del pubblico, numerosissimo per un concerto di musica contemporanea (poi alla Scala un po’svuotata ai tempi dell’Expo), oltre alle “dozzina” di appunti giovanili, le prime due sonate per pianoforte sempre di Boulez e le non meno straordinarie Visions de l’Amen di Messiaen.

Se le prime consumarono una delle tante rotture artistiche dell’arrembante compositore di Pli selon Pli con i suoi maestri e nel caso specifico René Leibowitz che come detto lo aveva istradato verso i sentieri dodecafonici di Schoenberg e dei non meno importanti di Webern, la composizione di Messiaen, per due pianoforti, sembra riequilibrare in funzione di assoluto godimento intellettuale l’interpretazione della coppia d’arte e di vita Aimard – Stefanovich, impegnati fino ad allora a dividersi in modo assoluto, ma forse troppo didattico, l’esecuzione delle partiture bouleziane.