Una progressione nell’ordine di mille contagi in più al giorno nel governo non se l’aspettava nessuno. Più ancora del numero in salita dei positivi o di quello delle intensive, fortunatamente ancora molto lontano dal livello di saturazione anche se in alcune regioni l’allarme già c’è, è la rapidità della progressione che semina il panico e giustifica la sensazione diffusa di nuove misure drastiche imminenti. Se ne avverte distintamente il riflesso nelle parole del capo dello Stato: «La libertà non è un fatto esclusivamente individuale ma si realizza richiedendo responsabilità e collaborazione.

La necessità di mantenere aperte scuole, fabbriche e uffici implica una maggiore responsabilità nel prevenire». Nel lessico del presidente è un segnale d’allarme preciso e forte. Perché per tutti la parola d’ordine è «non ci sarà un nuovo lockdown», accompagnata però da una subordinata: «Sempre che i contagi non continuino a crescere a questo ritmo».

Qualcosa però bisogna fare subito, rinvigorendo il prossimo Dpcm, se si vuole evitare il rischio di dover blindare tutto domani. Per questo viene convocato in serata un vertice dei capidelegazione con Conte e con il ministro delle Regioni Boccia, che in mattinata aveva dato fuoco alle polveri: «Limitazioni di spostamento tra le regioni non si possono escludere. Non si può escludere nulla». L’emergenza peraltro è doppia: in molte regioni la situazione per quanto riguarda i tamponi è disastrosa. Ore e ore di attesa, centri sanitari al collasso. La ministra degli Interni Lamorgese avverte: «Attenzione alla rabbia sociale».

La riunione però salta. Ufficialmente solo perché la ministra Bellanova di Iv non ce la fa ad arrivare in tempo dalla Puglia e qualche difficoltà logistica forse ce l’ha anche Speranza. Ma soprattutto nessuno ha ancora chiaro in mente che fare. Come sempre ci sono i più drastici, come lo stesso ministro della Salute e il capodelegazione Pd Franceschini, e i più cauti, tra i quali il premier. Riparare al disastro dei tamponi aumentando i centri sanitari e accreditando gli ospedali per i test rapidi è un obbligo. Il nodo resta quello delle chiusure e qui l’ipotesi in campo è il «modello Latina», la provincia del Lazio a un passo dalla zona rossa nella quale il presidente Zingaretti ha adottato misure rigide: limite di 20 persone anche nelle feste private, di 4 commensali al ristorante, chiusura dei locali alle 24, divieto di assembramento di fronte alle scuole e nei luoghi pubblici, blocco delle visite dei parenti nelle strutture sanitarie. Nella speranza che basti.

Da palazzo Chigi segnalano però che il vertice non avrebbe dovuto trattare solo le misure anti Covid. Un po’ per non inviare segnali troppo allarmistici ma un po’, anzi molto, perché la lista dei problemi accumulatisi è davvero impressionante. È ancora Mattarella ad ammonire, stavolta rivolto alla Ue: «L’emergenza richiede tempestività». Il quadro invece indica un rallentamento secco. Lo scontro tra Parlamento europeo e presidenza tedesca della Ue sul bilancio dell’Unione ha paralizzato le trattative sul Recovery Fund. Lo spettro di uno slittamento dell’arrivo dei fondi alla seconda metà del 2021 non è mai stato tanto incombente e per l’Italia il guaio sarebbe grosso. Tra frenate a Bruxelles e accelerazioni del virus in patria è inevitabile che la richiesta di ricorrere al Mes da parte del Pd diventi più pressante. In un M5S lacerato anche questo diventa fronte dello scontro, con una componente favorevole al prestito che inizia a uscire allo scoperto.

Tutto qui? No. Il voto sullo scostamento di bilancio di mercoledì al Senato resta ad altissimo rischio. Alla fine i 161 voti necessari almeno sulla carta ci saranno. Ma se, come è successo sempre negli ultimi tempi, la paura del Covid lascerà vuoti alcuni banchi non ci sarà salvezza.