I due decreti con i quali partirà davvero la marcia del Pnrr, il Recovery Plan italiano, saranno il banco di prova per la tenuta della maggioranza di fronte alla prima vera sfida non solo propagandistica. Sin qui il gioco è stato in realtà facile: lo scontro sulle aperture è sempre stato risibile. Ora la musica cambia. In ballo ci saranno interessi materiali e ci sarà un disegno della macchina statale italiana destinato a durare. Partita vera, non più solo a beneficio dei sondaggi.

I due decreti sono entrambi propedeutici. Il primo indica la governance, cioè chi avrà davvero voce in capitolo. Il secondo ha il compito di rendere più rapidi gli interventi disboscando la giungla dei regolamenti. Dovrebbero essere entrambi licenziati entro la settimana prossima, Draghi si è anzi pubblicamente impegnato, ma il ministro direttamente coinvolto, quello della Transizione Cingolani, sembra più prudente. «E’ in arrivo, credo che si possa parlare di poche settimane», ha dichiarato ieri. Sui contenuti il ministro, nonostante la minaccia di sciopero generale della Cgil e le proteste dei 5S e di LeU,tiene il punto: «Più che di semplificazione si deve parlare di accelerazione. Semplifichiamo perché qualcuno da fuori ci dà i fondi per costruire il più grande progetto globale degli ultimi decenni. Questa volta le regole non vanno lette in maniera flessibile ma sono quelle un po’ inflessibili della Commissione europea».

Cingolani non poteva essere più esplicito. Senza un certo tasso di deregolamentazione, pur «nel rispetto dei princìpi fondamentali come la sicurezza sul lavoro» il flusso dei miliardi europei rischia di interrompersi. E dall’Europa, dopo la tregua Covid, tornano a risuonare accenti rigidi e rigoristi. Ieri, al termine del vertice informale Ecofin, il vicepresidente della Commissione Dombrovskis, ha concesso che quel che si vede dai vari Piani nazionali «è promettente». Però la Commissione «sta ancora esaminando i dettagli» e ci vorrà del tempo. Prima che venga erogato l’anticipo molto atteso da parecchi Paesi ma da nessuno quanto dall’Italia dovrà poi passare un altro mese, perché tanto dura la procedura necessaria al pregiudiziale semaforo verde del Consiglio europeo. Insomma, perché arrivi la sospirata prima tranche ancora ce ne vuole.

Ma soprattutto Dombrovskis chiude ogni spiraglio sull’eventualità di estendere anche al 2023 la sospensione del Patto di Stabilità: «Manterremo la clausola generale di salvaguardia nel 2022 ma non più a partire dal 2023». Se si tiene conto della pressione che stanno esercitando i falchi tedeschi, ai quali da voce l’ex ministro della Finanze Schaeuble, per un controllo molto rigido sull’Italia al fine di evitare quella che Schaeuble definisce «una pandemia del debito», si capisce quanto rischioso sarà quel momento e si spiega anche l’insistenza del governo nel volere quella che è una sostanziale deregulation.

Lo scontro sociale e nella maggioranza è già altissimo. La Cgil ma anche la Cisl ripetono che in particolare il capitolo della bozza che liberalizza i subappalti, moltiplica le possibilità di chiamata diretta e permette di accorpare l’appalto per il progetto e quello per la realizzazione implicherebbe un sostanziale crollo di una sicurezza sul lavoro che peralto già garantisce ben poco. Inoltre la regola del minor prezzo sancita dalla bozza di Cingolani porterebbe a un taglio dei salari. Ai 5S, che avevano protestato subito si è aggiunta ieri LeU con il capogruppo Fornaro. Senza contare la possibilità, anzi la probabilità, di infiltrazioni mafiose, che preoccupa moltissimo le associazioni come Libera ma alla quale non sono insensibili neppure aree del Pd.

Ma non è che neppure sulla governance sia tutta discesa. Il nodo non è il coordinamento in capo al Mef, sul quale non discute nessuno, ma la cabina di regia presso palazzo Chigi, alla quale spetterà di fatto l’intera gestione. Ma come la cabina sarà strutturata e composta e come funzionerà è ancora in bianco e non si tratta particolari ininfluenti.