Nel consueto silenzio dei media nostrani, Kiev prosegue la sua marcia tesa a mostrare ormai il suo vero volto, senza alcun problema di natura etica e morale. Non bastasse il silenzio sulla strage di Odessa e sui morti civili di Mariupol, o aver ottenuto il governo a furor di quella parte di popolazione che ha appoggiato i miliziani di Settore Destro in prima linea a Majdan, ora minaccia di mettere fuori legge il Partito comunista.

Secondo quanto emerso nei giorni scorsi sarebbe già pronta una bozza che dichiarerebbe illegale il Partito. Non solo, perché al termine di una burrascosa seduta al parlamento di Kiev, il segretario comunista ucraino è stato vittima di un agguato da parte di una trentina di persone, che hanno tentato di incendiargli l’auto.

Un clima di tensione e vendette, perfetto per le mosse di Kiev, che imperterrita prosegue nella farsa del «tavolo di unità nazionale», che vede presente l’ambasciatore americano, ma non i rappresentanti di sette milioni di persone che non si riconoscono nel governo di Majdan. Un tavolo dunque di disunità, più che il contrario. Una seconda tornata di incontri, che presumibilmente non porterà a niente, mentre Mosca ribadisce le proprie perplessità sulle presidenziali del 25 maggio, dopo aver – nelle scorse settimane – aperto a possibilità di dialogo mai recepite da Unione europea, Usa e Kiev.

E proprio riguardo le presidenziali, Simonenko – segretario dei comunisti ucraini – aveva annunciato la propria rinuncia alla corsa, accusando Kiev di non tenere conto di quanto sta accadendo nell’est del paese e accusando apertamente Turchynov e il premier Yatseniuk di corresponsabilità nelle morti dei civili di Mariupol (che secondo i comunisti ucraini sarebbero ben più di quanto circolato tra i media; la traduzione dell’intervento di Simonenko si può trovare su marx21.it mentre aggiornamenti sulla situazione ucraina si possono trovare nella pagina Facebook, Con l’Ucraina antifascista).

La risposta di Turchynov è stata perentoria, accusando il partito comunista di appoggiare i «terroristi». Il governo di Kiev, ha detto il presidente ad interim, avrebbe già pronte le prove. Non troppo difficile come ricerca, del resto, dato che il palazzo degli uffici del partito comunista ucraino, dopo Majdan, divenne il quartier generale di Settore Destro e altri gruppetti nazisti. Semplice quindi confezionare prove, all’interno di palazzi che, come nelle migliori tradizioni fasciste, sono state infine bruciati.

Chi pensava dunque che la situazione ucraina potesse risolversi con Ginevra o con il tavolo di pseudo unità nazionale, si è rivelato un illuso: il ginepraio geopolitico e nazionale è sempre più teso e sempre più grave appare la situazione interna, nelle cui analisi si è sempre sottovalutato il peso di forze conservatrici – per usare un eufemismo – alla cui guida «istituzionale» si è posta, neanche troppo nell’ombra, Yulia Tymoshenko, che già dal carcere aveva definito «eroi» i neonazisti protagonisti della battaglia di Majdan.

Nel frattempo a Kharkiv, nell’Ucraina orientale, è andato in scena il secondo round del dialogo promosso dal governo, con l’esclusione dei rappresentanti dei filorussi che hanno accusato Kiev di essere una «giunta fascista».

Alla riunione hanno partecipato il premier Yatseniuk, gli ex presidenti Kravchuk e Kuchma, il ministro dell’Interno, Avakov, e i rappresentati del Partito delle Regioni, la formazione che sosteneva il governo del premier destituito di Yanukovich. In apertura dei lavori il premier ucraino ha ribadito che il governo non intende negoziare con «i terroristi», riferendosi alla forze filorusse che hanno proclamato l’indipendenza a Donetsk e Lugansk. «Il governo farà tutto il possibile perchè depongano le armi», ha aggiunto.