L’altoforno delle Acciaierie di Piombino chiuderà entro l’anno. E il governo non ha alcuna intenzione di intervenire per strappare alla cassa integrazione almeno un migliaio di addetti diretti, con effetti a cascata sull’indotto. Questo nonostante l’analisi costi-benefici già fatta dai sindacati metalmeccanici, pronta a segnalare come sia più economico investire 36 milioni per tenere acceso l’impianto che spenderne quasi 50 per gli ammortizzatori sociali.

Fumata nerissima dall’incontro al ministero dello sviluppo economico dove in discussione c’era il futuro della ex Lucchini. Ai sindacati, al sindaco Gianni Anselmi e al presidente toscano Enrico Rossi, arrivati ufficialmente a Roma per chiedere che l’altoforno restasse acceso fino al 2015, il sottosegretario Claudio De Vincenti ha chiuso ogni porta in faccia. Via libera quindi al piano del commissario straordinario Piero Nardi, anche lui al tavolo. Un piano che non lascia scampo alle Acciaierie. “Non è detto che andare avanti in perdita – ha affermato De Vincenti – aiuti a trovare investitori interessati al futuro di Piombino”.

“Nell’incontro è stata riconfermata l’ipotesi per il futuro di un forno elettrico e di un impianto Corex – spiega Rosario Rappa, segretario nazionale Fiom responsabile per il settore siderurgico – nel solco del progetto della Regione Toscana di un polo per lo smantellamento delle navi. Ma non si potrà arrivare a quelle scadenze con un altoforno chiuso. Tutto quello che c’è da fare, va fatto con l’impianto acceso”. Anche perché i tempi non saranno brevi. In particolare per l’impianto Corex che, in teoria, dovrebbe ereditare la produzione di una parte dell’acciaio che oggi esce dal grande altoforno piombinese.

Quanto agli operai da mandare in cig, De Vincenti è stato altrettanto esplicito: “Il governo si impegna a sostenere i lavoratori nella fase di transizione”. In altre parole ricadranno su di loro i costi sociali delle trasformazioni produttive del secondo polo siderurgico italiano. La sfilza di brutte notizie è stata all’ordine del giorno del consiglio di fabbrica organizzato nella notte sotto il Torrione del Rivellino, dove al presidio delle tute blu si sono aggiunti ieri gli studenti. “E’ come nel 1953 quando chiusero la Magona e mandarono a casa 5mila persone – ricorda Alessandro Favilli di Rifondazione – e quella volta gli operai si ribellarono, occupando la fabbrica e autogestendola”.