Saverio De Bonis, 52 anni, lucano, è un produttore di grano duro e presidente dell’associazione GranoSalus.

I suoi attacchi alle industrie – supportati da analisi di laboratorio – continuano a scatenare polemiche furibonde tra i pastai più noti. La controversia non è ancora risolta.

Lo scorso ottobre il tribunale di Roma ha dato ragione a GranoSalus che ha riportato articoli secondo cui la pasta di alcuni marchi contiene sostanze contaminanti e quindi, per deduzione, sarebbe lavorata anche con grano importato dal Canada. Perché avete commissionato quei test che hanno scovato glifosato, micotossine e cadmio?

Sette anni fa un microbiologo che partecipava alle attività dei nostri circoli ha lanciato l’allarme sulla presenza di micotossine. È un fungo patogeno che si sviluppa sul grano a causa dell’umidità. Le istituzioni non ci hanno ascoltato e così abbiamo deciso di cambiare strategia per parlare anche ai consumatori.

GranoSalus nasce così: piccoli produttori locali si associano per tutelare il diritto alla salute e alla produzione di qualità. Lo scorso febbraio abbiamo effettuato i primi test prendendo la pasta sugli scaffali e abbiamo trovato tracce di glifosato e cadmio in otto campioni esaminati, sono perturbatori endocrini e quindi dannosi a prescindere dalla quantità rilevata. Le analisi sono state condotte da un laboratorio di Cuneo certificato e utilizzato anche dall’Unione europea.

Quali paste avete fatto analizzare?

Barilla, La Molisana, De Cecco, Divella, Garofalo, Granoro, Voiello e Coop. Le industrie che hanno presentato ricorso (Coop non lo ha fatto ma ha precisato con una nota) sono state condannate a risarcire le spese processuali perché negli articoli non c’era diffamazione.

Avete fatto controlli sulle navi.

Due a Manfredonia e due a Bari, dove arriva il 60 per cento del grano duro importato. Anche in quel caso i test hanno confermato la presenza degli stessi contaminanti sulla materia prima: micotossine, cadmio e glifosato.

I vostri test però sono stati duramente criticati dalle industrie della pasta. Vi hanno accusato di allarmismo ingiustificato.

Gli articoli in questione, come scrive la prima sezione civile del Tribunale di Roma, costituiscono legittima espressione del diritto di critica e manifestazione del pensiero, trattandosi di temi di tale delicatezza e rilevanza per la salute pubblica.

Le industrie dicono di avere accusato il colpo con un calo delle vendite, ma hanno solo cercato di riposizionare la propria immagine vantando la bontà degli approvvigionamenti dall’estero, come fa Barilla: hanno imposto agli agricoltori italiani un disciplinare su cui scrivere che il grano venduto non contiene glifosato, ma è del tutto superfluo poiché in Italia nessuno spruzza diserbante sulle spighe.

Le sostanze rilevate però sono presenti in quantità che rispettano i limiti previsti dalla legislazione europea, dunque qual è il problema?

Sono nei limiti, però non ci sono prove scientifiche che dimostrino che tutti questi contaminanti, assunti insieme, non provochino danni alla salute. Sui limiti ci sarebbe da discutere. La Fao fissa la presenza della micotossina DON (deossinivalenolo) a 1.000 ppb (parti per miliardo), solo che in Europa a partire dal 2006 questa soglia è stata portata a 1.750.

In Canada il grano che supera la soglia di 1.000 ppb non viene dato nemmeno agli animali: è questa la roba che finisce in Europa. Quanto al glifosato, nel 2016 l’Europa, essendo impossibile stabilire una soglia di pericolosità, si è messa al riparo vietandolo del tutto. Quindi, teoricamente, le paste con tracce di glifosato dovrebbero essere fuorilegge. Abbiamo rivolto la questione al ministero della Salute, ma non ci hanno saputo rispondere.

Se il grano che già oggi importiamo dal Canada è inquinato, cosa cambierebbe qualora venisse approvato il Ceta?

Con il mutuo riconoscimento della legislazione, l’Europa sarebbe costretta ad accettare l’impalcatura giuridica canadese. Il legislatore italiano, per fare solo un esempio, non potrebbe più rifiutare la pasta contaminata al glifosato, quindi verrebbe neutralizzato il principio di precauzione.

Chi utilizza solo grano italiano produce pasta non contaminata?

Il grano italiano non garantisce nulla. La vera garanzia sarebbe scrivere su un’etichetta che nella pasta non ci sono sostanze contaminanti. Anche nel grano prodotto in Italia possono trovarsi elementi di tossicità, nelle zone più umide del paese per esempio è più facile che si sviluppi la micotossina.

Comunque va detto che in Italia si producono ottime paste a 0 ppb fatte con grano secco dove il fungo non si sviluppa. Che prendano il grano dove vogliono, ma le industrie devono dire al consumatore cosa contiene a livello di residui tossici. Del buon grano turco, o spagnolo, può avere le stesse caratteristiche qualitative di quello italiano.

Il grano duro italiano di alta qualità viene anche esportato. Eppure la produzione totale non soddisfa il fabbisogno interno.

Il nostro grano è prezioso e viene venduto all’estero a prezzi più alti. Noi abbiamo l’oro e lo esportiamo, poi per soddisfare il mercato interno a volte lo tagliamo con un po’ di argento. Sta succedendo questo. Nel Maghreb vogliono il nostro grano, non quello canadese: oggi è più tutelato un marocchino che mangia cous-cous di un italiano che mangia la pasta.

Cosa potrebbe fare il governo per tutelare produttori e consumatori?

Dotarsi di una politica di settore che non ha mai avuto. Il cibo, invece, continua ad essere utilizzato come merce di scambio per trattati internazionali e per incrementare l’export. Il governo dovrebbe decidere cosa è strategico per il paese e poi potenziare i controlli.

Un esempio: il ministero ha un elenco di sostanze da cercare negli alimenti stoccati nei porti italiani e tra queste non figura il glifosato. Come mai? Servono controlli seri su tutti i derivati dai cereali: pasta, pane, pizze, dolci.

Tutti gli agricoltori italiani sono impegnati in questa campagna?

Non tutti nello stesso modo. Il sistema agricolo italiano accetta supinamente la filiera capestro imposta dalle multinazionali dei pastai che fissano i prezzi minimi e massimi. Con la complicità del governo.