«Per le criptovalute, è stato un instabile viaggio negli abissi». Così il Wall Street Journal scrive del processo che ha portato, due giorni fa, al “giovedì nero” delle criptovalute, quando la più popolare sul mercato – il bitcoin – ha perso il 29% del suo valore nel giro di una settimana, per poi ricominciare a recuperare un po’, come anche l’ethereum, dopo aver perso rispettivamente, solo giovedì, il 5 e il 12%. Nella più classica delle reazioni a catena, il crollo è stato innescato dalla vacillazione di tether, la più importante stablecoin – una criptovaluta “stabile” in quanto ancorata al valore del dollaro – a sua volta causata dal crollo di un’altra stablecoin, Terra Usd e la sua “compagna” Luna, la prima precipitata a 20 centesimi di dollaro e la seconda nell’ambito dei millesimali (il Guardian riporta che l’influencer Ksi, che sperava di arricchirsi con il crollo, ha acquistato 3 milioni di dollari di Luna e si ritrova adesso con 10 dollari). Al punto che ieri il blockchain di Terra Usd (una «stablecoin algoritmica») è stato interrotto e la criptovaluta rimossa dai listini. La segretaria del Tesoro Usa Janet Yellen ha infatti commentato l’accaduto tornando a premere perché anche le stablecoin vengano sottoposte a regolamentazione: «Presentano gli stessi tipi di rischi che abbiamo conosciuto per secoli in relazione alla corsa agli sportelli».

Ma non basta una reazione a catena, per quanto macroscopica, per spiegare «il viaggio negli abissi» delle criptovalute culminato giovedì: da novembre scorso, quando il suo valore era di quasi 68.000 dollari, il bitcoin ha perso il 58% del suo valore sprofondando a 26.000, mentre l’ethereum nello stesso periodo ha raggiunto il -60%. Al declino hanno infatti contribuito gli stessi fattori che dopo la pandemia hanno portato alle perdite di piattaforme come Netflix: quello che in tanti chiamano il pandemic hangover, il post-sbornia di un lungo lockdown durante il quale l’investimento nelle criptovalute è stato anche un intrattenimento. Un ruolo fondamentale, dato che si parla di valuta digitale, lo ha anche l’instabilità economica legata alla guerra in corso – e i l’inflazione e i tassi d’interesse in aumento negli Stati uniti, che portano gli investitori a liberarsi degli asset a rischio.

Oltre al fatto che le criptovalute, «inizialmente – scrive il WSJ – un gioco per investitori individuali, ora sono dominate da investitori istituzionali come gli hedge fund». Rispetto al crollo del bitcoin nel 2018 (precipitato al -80% per poi invece risalire ad altezze tali che alcuni analisti immaginavano il 2022 come l’anno in cui il bitcoin avrebbe raggiunto i 100.000 dollari a moneta) ora le cripto sono parte del patrimonio di molte più istituzioni, non solo finanziarie, e di molte più persone. Si stima che il 16% degli statunitensi possiedano criptovalute, mentre secondo un sondaggio del 2021 di Finder si trovano nel “portafogli” del 21% degli italiani: 1 italiano su 5 ha investito in cripto. Per non parlare del fatto che i bitcoin sono valuta legale in ben due paesi: El Salvador e Repubblica Centrafricana. Non è un caso se un analista intervistato dal New York Times si interroga sulla possibilità, anche se per ora appare remota, di trovarci «di fronte a una nuova Lehman Brothers».