Gillo Dorfles è morto. Pare inimmaginabile, anche per chi poco meno di un anno fa, forse per celebrare i suoi 107 anni, lanciò tra gli utenti del forum di finanza on line una bizzarra domanda – non propriamente appartenente ai temi solitamente discussi – ma che denotava la caratura e la conoscenza del personaggio oltre i confini della materia: «Secondo voi Gillo Dorfles è più bravo come scrittore, come critico d’arte, come uomo longevo o come artista? Oppure eccelle in tutto quanto scritto sopra?».

LE RISPOSTE OSCILLARONO tra lapidarie e articolate. Una prima batteria riportò: «Grande personaggio sicuramente. A mio avviso sarà ricordato in prevalenza per il suo lavoro di critico d’arte»; «Verrà anche ricordato sicuramente come fondatore del Mac nel 48 con Soldati e Munari»; «Per longevità sicuramente….per i restanti aspetti evidenziati personalmente mi interessa assai poco»; «per il volto» (con allegato il celebre ritratto di profilo fotografato da Ugo Mulas). Oltre i suoi molti talenti, Dorfles era diventato un’icona al quale riferirsi per ogni buona occasione. Non in ultimo erano le continue richieste d’aver la sua presenza a inaugurazioni, incontri, presentazioni (l’ultima dalla Fondazione Prada per Post Zang Tumb Tuum). Che facevano il pari con le non meno pressanti richieste di contributi e scritti o ancor più – il vedere riconosciuta la sua attività di pittore, incisore e ceramista gli era di grande soddisfazione – di sue opere per nuove mostre. Eppure, voleva essere ricordato, con una piccata punta snobistica – d’altronde, i suoi diari «intermittenti» sono pieni di salate e idiosincratiche civetterie, sferzanti giudizi e pettegoli apprezzamenti – come un critico del costume.

OLTRE A CIÒ, è stata proprio la sua leggendaria e proverbiale longevità, talvolta, a relegare in zone marginali della sua produzione alcune attività intellettuali, solo negli ultimi anni raccontate e che con la sua scomparsa avranno di certo un’adeguata illuminazione. Una di queste, contata nella sua giovinezza, è l’aver abbracciato non convintamente la medicina, per poi spostarsi – a causa dei sempre più urgenti interessi filosofici, letterari e artistici (ad allora risalgono le prime prove pittoriche e poetiche, continuate «clandestinamente» negli anni maggiori) – verso la psichiatria e le letture degli scritti di Freud. L’intersezione con i contemporanei interessi per il Surrealismo e le avanguardie storiche anticipavano intanto futuri studi.
A tal proposito, amava rammentare «l’episodio ben noto di Breton che andava a Vienna, e veniva trattato malamente (e non dico cacciato!) da Freud, per la poca comprensione e fiducia da parte di Freud negli addentellati del Surrealismo. Ma questi addentellati c’erano». Non va dimenticato che Trieste fu uno dei primi crocevia europei della psicoanalisi, per la presenza di uno degli allievi di Freud Edoardo Weiss nonché di poeti come Saba (molto interessato) e Svevo (poco interessato se non per guai familiari).

IL POCO PIÙ CHE VENTENNE Dorfles, posizionato in un osservatorio familiare privilegiato, conobbe e subì il fascino di queste nuove discipline. D’altronde, la novità lo attirava, mentre lo sguardo retrospettivo già allora gli era estraneo. Si era tra la metà degli anni trenta e gli inizi degli anni quaranta; erano gli anni in cui il metodo Cerletti dell’elettroshock andava affermandosi come cura; Dorfles non ne fece quasi uso tra i suoi pazienti, mentre di una dozzina di essi ci ha lasciato testimonianza in una serie di ritratti che il prossimo maggio saranno esposti (dopo averne visti una parte nella grande mostra al Macro di qualche anno fa), tutti insieme a Casa Testori, con un paio di quadri in tema del drammaturgo – pittore di Novate Milanese, in concomitanza con il quarantennale della Legge 180 «Basaglia».