Corpi di decine di ragazzi e uomini adulti, volti straziati di donne e giovani, il rosso vivo del loro sangue, sono le immagini della carneficina egiziana compiuta ieri. Persone indifese sono state attaccate alle prime luci dell’alba da poliziotti, altrettanto poveri, ma armati fino ai denti, sono state colpite dai cecchini posizionati sui tetti delle case, sono state massacrate da criminali in borghese sguinzagliati alla rinfusa. Il corpo dilaniato di un ragazzo viene portato verso la moschea Alaa Ina, sotto il ponte 6 Ottobre, prima dell’inizio di via Nassr a qualche centinaio di metri dal sit-in di Rabaa al Asaweya. All’interno i cadaveri sono decine, non ci sono mezzi per curare i feriti, il sangue scorre intenso sulle pale improvvisate dove sono sistemati alcuni corpi. Un giovane muore sotto i nostri occhi. Tentano ripetutamente di fargli un massaggio cardiaco, ma inizia a diventare cianotico a perdere conoscenza. Una donna si abbassa sul suo capo e gli parla, ma non ci sono speranze di rivederlo in vita mentre degli infermieri improvvisati gli applicano un lavaggio. Un ragazzo prende la sua gola tra le mani: è morto. Continuano ad arrivare uomini dai volti sfregiati, con gli occhi completamente usciti dalle orbite, un ragazzo ha l’addome tranciato, mentre due signori, stesi con lo sguardo nel vuoto, e le maglie ricoperte di sangue, hanno fori alla testa e lungo la spina dorsale. Parte del lunghissimo ponte di 6 Ottobre, teatro degli scontri del 26 luglio scorso, è completamente occupato da una folla in fuga dalla strage di Rabaa, mentre alcuni giovani incitano un corteo a ritornare verso l’accampamento. Si intravedono da lontano le colonne di fumo che si alzano dal sit-in e gruppi di ragazzi impauriti dai nuovi lanci di lacrimogeni correre a testa bassa dall’altro lato del ponte. Passano vetture, motociclette e camioncini pieni di feriti, un uomo è stato trapassato da parte a parte. La barella funebre di un giovane, il cui corpo è stato coperto all’ultimo momento da una serie di asciugamani colorate, fa il suo ingresso solenne nella moschea. Un nugolo di donne piange e urla per strada, degli uomini tentano di assaltare i camion della polizia per approvvigionarsi di poveri materiali, utili alla difesa personale, una folla continua a picchiare pietre sulle sbarre di ferro del ponte. Sono decine le macchine incendiate e i copertoni andati in fumo, si diffonde un odore acre, molti spruzzano sugli occhi dell’acqua che lenisca l’effetto dei lacrimogeni. Tutti scappano via da Rabaa.

Centinaia sono gli arresti, tra cui il segretario del partito Libertà e giustizia, Mohammed Beltagi, impegnato in prima linea nel difendere la legittimità elettorale dell’ex presidente. Ieri ha perso anche sua figlia Ammar nello sgombero della polizia. Altri sette leader della Fratellanza, tra cui Essam El-Erian e Safwat Higazy, finiscono in carcere.

Comitati popolari a sostegno della polizia sono stati creati in alcuni quartieri presi di mira dai sostenitori dei Fratelli musulmani. Intorno alla moschea Mohammed Mahmoud è una scena di guerra. Le inferriate dei negozi sono divelte. «Sono venuti in migliaia da ogni lato, si sono concentrati intorno alla moschea. Qui la polizia ha iniziato a lanciare cariche. Alcuni islamisti sono entrati negli uffici del quotidiano Youm el Saba», ci racconta un giovane. I comitati popolari fermano più volte i passanti per controlli. L’annuncio del coprifuoco rende necessario mettere in sicurezza il quartiere. Spesso criminali si infiltrano all’interno di questi gruppi spontanei della società civile. L’immensa Gamat al Duwal è attraversata in lungo e in largo da ruspe dell’esercito. «Ho visto salire gruppi di Fratelli musulmani in alcuni palazzi perché avevano paura. Ho trascorso con loro la notte, avevano con sé soltanto bottiglie molotov, pietre e fionde», ci spiega Khaled, fotografo di Youm El-Saba. Ma le violenze sono scoppiate anche fuori dal Cairo. «Ci hanno detto che i Fratelli hanno iniziato ad attaccare dovunque e hanno tentato di forzare l’ingresso della Biblioteca di Alessandria», ci spiega l’attivista Mahie Masry. Gravissimi scontri hanno avuto luogo anche a Ismailia dove sono morte oltre 15 persone negli attacchi della polizia. Mentre nelle violenze a Fayoum e Suez hanno perso la vita rispettivamente 17 e cinque persone: un bilancio ancora da confermare. Non solo: sono state date alle fiamme le chiese di Sohag nell’Alto Egitto e Suez.

Era la notte tra martedì e mercoledì, quando fonti dei Fratelli musulmani parlavano di poliziotti in borghese che si avvicinavano agli accampamenti di Nahda, a Giza. Poco lontano erano scoppiati scontri alla metro Faysal dove ha perso la vita un islamista e altri 10 sono rimasti feriti. A quel punto sono partiti almeno otto cortei dalla moschea Salam di Medinat Nassr, Quds di Ein Shams, el Aziz Belah di Zeitun, Soheib di Sharabeya. Le comunicazioni che abbiamo ricevuto dalla Fratellanza sono diventate concitate, «confidiamo in dio», «impediscono alle ambulanze di raggiungere Rabaa», «donne e bambini feriti non possono uscire dal sit-in», «le forze di sicurezza hanno attaccato l’ospedale da campo e trasportano fuori i cadaveri». E poi le terribili notizie di Habiba, la giovane attivista del movimento che ci ha spesso accolto nelle nostre visite a Rabaa e del cameramen inglese di Skynews Michael Dean, uccisi nello sgombero forzoso. A questo punto le comunicazioni si interrompono, i Fratelli parlano di quasi duemila morti, mentre il ministero della Saluta conta 150 caduti e oltre mille feriti.
Il violento sgombero di Rabaa el-Adaweya ha riportato il terrore e la violenza nelle strade egiziane. Un bagno di sangue che l’esercito avrebbe dovuto fermamente evitare. Invece ha imposto il coprifuoco dalle 7 di sera alle 6 di mattina per almeno un mese. E così, assicurati dai cordoni della polizia, le centinaia di migliaia di persone che per oltre 40 giorni hanno occupato piazza Rabaa al Adaweya defluiscono lentamente. A sera piazza Rabaa è sotto totale controllo della polizia.