«Il giorno della liberazione di Saigon ero nel quartiere generale con gli uomini dell’ufficio politico del Partito comunista. Alle 9 di mattina ricevemmo una prima notizia non ufficiale, poi tra le 10 e le 11 arrivò un telegramma che ci faceva rapporto sulla presa della città. Diceva: “Le nostre truppe hanno occupato il palazzo dell’Indipendenza, non abbiamo incontrato resistenza, non è stato necessario aprire il fuoco”. Un momento indescrivibile, il sogno di tutta la nostra vita era diventato realtà».
Così il generale Giap – oggi ottantenne, eroe di una generazione che in tutto il mondo, negli anni ’60-’70, scendeva in piazza per protestare contro la guerra del Vietnam – quel 30 aprile del 1975. «La fine di aprile del ’75, insieme al ricordo della battaglia di Dien Bien Phu (1954) quando sconfiggemmo i francesi e li cacciammo dal paese, rimarranno nella mia mente come i giorni più belli della mia lunga vita. Ad Hanoi tutta la gente era per le strade a festeggiare. Piangevamo dalla gioia, ma dentro di noi rimaneva il ricordo dei 3 milioni e 500 mila morti. Il Vietnam ha una storia millenaria, dove le guerre si sono susseguite senza interruzione e sempre per cacciare gli invasori. Prima, e più volte, fummo invasi dai cinesi, poi da francesi e giapponesi e infine dagli americani e mai, neppure sotto i bombardamenti dei B52, abbiamo perso la speranza nella vittoria».

La fine della guerra e la riunificazione del paese dovevano portare «alla libertà, al benessere e alla prosperità». Siete soddisfatti dei risultati raggiunti?

Posso dire che siamo relativamente soddisfatti, sottolineo relativamente perché ancora molto dobbiamo fare. L’opinione pubblica mondiale, dopo la caduta del muro di Berlino e dell’Urss, ha pensato che anche la nostra rivoluzione sarebbe crollata. Ma noi siamo andati avanti a piccoli passi e abbiamo ottenuto alcuni successi come l’innalzamento del livello di vita della nostra gente. Certo sono solo i primi passi. Oggi posso dire che sono prudentemente ottimista e realista.

Nella crisi mondiale dei paesi socialisti, quali sono le prospettive per il socialismo alle soglie del 2000?

Posso dire che il socialismo per noi è riuscire a dare continuità agli enormi sforzi fatti per raggiungere l’indipendenza e per avviarci verso una società più giusta. Ho Chi Minh diceva che bisognava raggiungere il socialismo con l’emancipazione e il benessere di tutto il popolo, ma se il popolo è indipendente ma non è felice, l’indipendenza non conta. Oggi ci sforziamo di lavorare per la felicità del popolo che vuol dire democrazia e libertà per tutti. I nostri obiettivi primari sono quelli di far sì che tutti mangino e si vestano, che i ragazzi vadano a scuola, che i malati siano curati e che le minoranze etniche siano salvaguardate e rispettate con il loro coinvolgimento nella società. Devo ricorrere di nuovo allo zio Ho: «In una società chi è povero lavora per migliorare la sua vita, chi vive mediocremente lavora per diventare ricco e chi è ricco vuole diventare sempre più ricco. Ma se tutte queste persone lavorassero insieme, faremmo un paese prospero per tutti, non solo in senso materiale, ma anche in quello culturale». Questa è l’idea di un socialismo dove al centro si trova sempre l’uomo.

Il paese è in piena espansione economica e arrivano capitali esteri che portano anche nuovi modelli culturali, non pensa che si stia innescando un processo di rimozione storica?

Il pericolo esiste e non possiamo nasconderlo, ma la storia è come un fiume che dalla sorgente percorre il suo corso. Per anni i francesi hanno tentato di imporci i loro modelli culturali e non ci sono riusciti. Poi sono arrivati gli americani con le loro mode occidentali e anche loro caso hanno fallito. La mia fiducia che i giovani non perdano la straordinaria memoria storica del loro paese, sta nell’identità culturale che per millenni ha sempre resistito. Solo se continuiamo a saper trasmettere ai giovani quello che hanno passato i loro padri, potremmo salvare il paese anche dall’arretramento culturale.

McNamara in un recente libro sulla guerra americana in Vietnam, parla di una guerra ingiusta e fa autocritica…

Credo che McNamara abbia avuto un bel coraggio dicendo la verità. Sono convinto che la pensasse nello stesso modo anche quando, durante la guerra, si dimise. Rendere nota al mondo la verità è un atto di intelligenza che gli fa onore. Considero McNamara uno degli uomini più intelligenti del suo paese, ma questo dimostra che l’intelligenza non è bastata a sconfiggere la volontà di un popolo in lotta per l’indipendenza.