Il gioioso jazz funk della pantera rossa e del timido sassofonista
Live Una strana coppia che funziona quella che ha visto uniti sul palco del teatro Manzoni David Murray e Macy Gray
Live Una strana coppia che funziona quella che ha visto uniti sul palco del teatro Manzoni David Murray e Macy Gray
Per iniziare, una ballad: come costume di Aperitivo in concerto, sono le undici della domenica, al teatro Manzoni, e David Murray concede al pubblico un tranquillo risveglio con il suo Sorrow Song. Ma poi, appena annunciata dal sassofonista, irrompe Macy Gray e si cambia bruscamente marcia: forme abbondanti, criniera rossiccia, fisionomia da Ornella Vanoni in versione nera, incedere beccheggiante – fra ostentazione di disinvoltura cool e assetto effettivamente precario – Macy sembra sovrastare Murray: non solo, fra tacchi e statura, in altezza – Murray le arriva giusto alla spalla – ma per un momento mettendo un po’ nell’angolo anche il suo ruolo e il suo sax tenore, il che è tutto dire.
Voce rauca, bella grinta, Macy ingrana come un caterpillar il suo Relating to a Psycopath. La combinazione con uno degli alfieri del jazz degli ultimi decenni non è occasionale, e riesce godibilissimo: la star del neo-soul qui è con Murray in quartetto (Thornton Hudson, piano e hammond, Jaribu Shahid, contrabbasso e basso, Nasheet Waits, batteria), ma lo scorso anno c’è stato un tour con la big band di Murray, connubio assai gustoso, e nel frattempo è uscito un album del Murray Infinity Quartet con lei e Gregory Porter.
E non si pensi ad un’operazione schiacciata sul repertorio della Gray. Naturally, subito dopo, è un brano sofficemente funky firmato da Murray: il timbro chiaro della voce dà a Macy un che di innocenza infantile, che si combina con la sua aria da panterona sexy in un mix irresistibile. Anche Be My Monster Love, incalzante pezzo soul che dà il titolo all’album dell’Infinity Quartet, è firmato da Murray, e si fregia di testi in tutti i sensi audaci di Ishmael Reed, l’autore di culto di Mumbo Jumbo: Macy lo interpreta con quel suo stile spesso più da dicitrice che da cantante, e Murray ci piazza uno di quegli assoli in cui nel sound e nel linguaggio è una impagabile memoria storica, sedimentazione di Ben Webster, Coltrane, Ayler, Shepp… In Solitude di Ellington, Macy comincia da sola col contrabbasso, il suo modo è un po’ calcato, come se recitasse alla cantante di jazz, ma con quella sua voce afona per qualche istante il fantasma di Billie Holiday aleggia davvero.
Anche i brani successivi vengono dal repertorio di Murray: Joanne’s Green Satin Dress, con in più un testo, arriva addirittura da Flowers for Albert, cruciale album del ’76 del primo Murray, e porta la firma di Butch Morris, recentemente scomparso; Red Car è un rhythm’n’blues pure di Morris che Murray aveva inciso a fine anni ottanta per la Black Saint. Cambiati quattro abiti, Macy Gray chiude con Wake Up, la sua cover dagli Arcade Fire. Non prima di avere rimproverato il pubblico, «troppo quieto». Dietro le quinte poi si rammaricherà davvero che pochi abbiano ballato. Ma raramente abbiamo visto il pubblico uscire da un Aperitivo così di buon umore.
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