Quali sono le dinamiche sociolinguistiche e interculturali che vivono i grandi calciatori stranieri, che giocano nel campionato italiano? E’ accertato che l’apprendimento rapido della lingua del paese in cui giocano, abbia un riflesso positivo anche sul rendimento in campo. I calciatori poliglotta sono più aperti a contesti culturali e hanno anche una diversa visione di gioco? Un convegno internazionale che si svolgerà a Siena dal 15 al 17 novembre, presenta gli esiti di ricerche europee effettuate sul tema da studiosi americani, inglesi e austriaci. Ne parliamo con il prof. Raymond Siebetcheu, tra i promotori del convegno.

Quali sono gli esiti dei suoi studi linguistici su atleti stranieri che giocano in Italia?

Tifare per un calciatore o un atleta per il suo talento è importante per il pubblico dei tifosi della squadra, ma può essere interessante anche studiare le sue competenze linguistiche. I giocatori stranieri, calciatori o atleti di altri sport, come basket o pallavolo, sono portatori di un patrimonio linguistico variegato, interessante per la società multiliguistica e multietnica in cui viviamo. I nostri studi hanno valutato non solo i soggetti intesi come calciatori, ma anche come cittadini plurilingue, anche se l’Italia sotto l’aspetto del plurilinguismo è un paese che ha ancora molta strada da fare.

Quali sono i bisogni linguistici dei calciatori stranieri che arrivano in Italia?

Un calciatore che arriva in Italia ha bisogno di imparare la lingua il più presto possibile e poi di conoscere il linguaggio specifico settoriale del calcio o dello sport in cui è impegnato, avrà bisogno di quel vocabolario indispensabile per interagire con l’allenatore, i giocatori, la stampa, anche se le grandi squadre hanno gli interpreti, almeno i primi mesi. E’ chiaro che quando un giocatore parla la lingua del popolo il legame con i tifosi e con la squadra è più forte.

Un livello più alto di conoscenza della lingua, spinge i calciatori verso curiosità culturali più ampie, che vanno oltre il calcio?

Dipende dalle motivazioni personali di ogni calciatore e dal tempo di permanenza in un determinato paese. Il calcio non è solo il contesto della domenica, in alcune realtà vi sono coinvolgimenti sociali, in cui un giocatore non può fare a meno di inserirsi nel contesto della città, però, come mi ha detto un calciatore: ” E’ il campo che conta, il contesto sociolinguistico è bellissimo, ma domenica chi vince?”. Certo i calciatori hanno ben presente che la dimensione linguistica è fondamentale, ma le società quando comprano un giocatore straniero lo fanno perché vogliono vincere, però è necessario anche favorire, attraverso progetti specifici, le condizioni perché i giocatori possano apprendere la lingua.

Un livello più alto della conoscenza della lingua ha un riflesso sul rendimento sportivo oppure calcio e lingua sono due ambiti separati?

Certamente, c’è un binomio interessante, mi riferisco non solo al calcio, ma anche a ricerche condotte da studiosi stranieri su atleti di altri sport. E’ vero che si tende a pensare che il calcio sia un linguaggio universale, è sufficiente il linguaggio non verbale, ma non può bastare, ci sono situazioni in cui occorre una conoscenza di base della lingua, anche perché il calcio moderno è diventato sempre più complesso. Alcuni anni fa Delio Rossi, quando guidava il Palermo diceva che non ce la faceva più ad allenare, aveva bisogno dell’interprete perché quando hai sette giocatori che parlano ognuno lingue diverse è difficile. Diego Simeone, ora alla guida dell’Atletico Madrid, quando allenava il Catania aveva 15 giocatori ispanofoni e perciò parlava in spagnolo. Dipende dall’allenatore, ma anche dalla rosa dei giocatori, nel calcio la situazione è molto più variegata rispetto agli altri sport. Etò dopo aver giocato nell’Inter, nel 2011 si trasferì in Russia per giocare nell’Anzi, diceva che durante l’allenamento entravano in campo anche sei o sette interpreti che correvano al fianco dei calciatori di varie nazionalità per tradurre le disposizioni dell’allenatore, una situazione paradossale, che gli suscitava una certa ilarità, ma è anche il segno di un calcio globalizzato.

La sua ricerca riguarda solo il calcio di élite?

La mia ricerca è ancora in corso, al momento ho studiato le dinamiche socio-linguistiche di una quarantina di calciatori stranieri, ma anche di squadre dilettantistiche. Ho studiato cosa succede durante gli allenamenti nelle squadre dei richiedenti asilo, se si capiscono quando parlano, dalla ricerca emerge che durante le partire si sentono in campo sette otto lingue diverse.

Tante lingue creano una babele in campo?

Tra i calciatori della squadra richiedenti asilo no, forse tra gli avversari. I ragazzi che non hanno una padronanza della lingua italiana, in campo riescono a usare parole efficaci in italiano. Il caso di un ragazzo proveniente dal Mali è emblematico, sa parlare solo il francese e il bambara, una lingua mandinga chiamata anche bamanankan, che si parla nel suo paese, in campo riusciva a usare alcune parole in italiano ben appropriate rispetto all’azione di gioco che si stava svolgendo. Nelle squadre di calcio dei richiedenti asilo non c’è un disordine linguistico, anzi ognuno insegna un termine del calcio della propria lingua al compagno di squadra. Forse il problema maggiore lo vivono gli avversari, che percepiscono una situazione babelica, la lingua dell’altro fa paura, è da evitare, crea divisione, mentre nelle squadre dei richiedenti asilo si ha la percezione chiara che la lingua dell’altro costituisce una ricchezza.

Lo sport consente di superare le barriere razziali?

Consente di superare barriere linguistiche e culturali, basta vedere quando un calciatore straniero segna un gol, tutti si abbracciano, non esistono più “nemici” questo è una piccola magia dello sport. Quando i giocatori di varie nazionalità si allenano insieme, giocano insieme, si crea armonia, integrazione.

Un calciatore multilingue è più facilitato a inserirsi nella squadra e nel contesto socio-culturale della città in cui gioca?

Il calciatore plurilingue, non è il semplice conoscente di idiomi, conosce i codici della lingua, è sicuramente un calciatore più aperto, perché conoscere una lingua significa conoscere una cultura. Parlare tre o quattro lingue, significa avere nel proprio repertorio almeno tre o quattro culture, questo è sinonimo di apertura, curiosità, di volontà di conoscere, scoprire altre lingue. Per un calciatore poliglotta come Ronaldo, che è portoghese, ha giocato in Inghilterra nel Manchester United, in Spagna nel Real Madrid e ora in Italia nella Juventus, studiare una nuova lingua non sarà una barriera insormontabile, non avvertirà quel sentimento di paura, perché ha nel suo bagaglio diverse lingue, perciò il suo non sarà un atteggiamento di difesa, di timore, cercherà di conoscere il più possibile di una determinata cultura, questo naturalmente non vale solo per i calciatori, ma per tutti i cittadini che conoscono più di una lingua.

Gli allenatori italiani manifestano apertura o chiusura verso le altre lingue?

Nei casi in cui c’è apertura gli allenatori italiani accennano a parlare in inglese, è un’apertura un pò timida, sono poche le società di calcio che lavorano sistematicamente sull’aspetto linguistico, naturalmente è opportuno sottolineare che i giocatori stranieri che vengono in Italia devono imparare l’italiano. Carlo Ancelotti quando allenava il Psg, aveva un gruppo di otto giocatori, da Ibrahimovic a Cavani che avevano giocato in Italia, perciò parlava in italiano, cosa che non piaceva ai giocatori francesi. Diverso il caso di un allenatore svizzero, che ho seguito nei miei studi, quando allenava parlava in tedesco, ma sintetizzava in francese e in italiano. All’estero gli allenatori fanno lo sforzo di imparare le lingue dei giocatori stranieri per favorire l’integrazione. Nei casi in cui le squadre non possono permettersi i traduttori, sono i compagni di squadra plurilingue a tradurre.