Vorrei parlare della Lettera aperta sull’Europa, rivolta alle massime autorità nazionali e comunitarie (i presidenti Napolitano, Letta e Barroso e il governatore Draghi), che ho sottoscritto insieme a quattordici amici, prestigiosi docenti universitari. Perché mi pare si sia trattato di un’iniziativa importante?

Per diverse buone ragioni, non ultima il fatto che il manifesto, che tre settimane fa (il 22 dicembre 2013) ha pubblicato con risalto quel testo, ne ha tratto l’opportunità di dimostrarsi ancora una volta necessario. Quale altro quotidiano cartaceo in Italia potrebbe fare propria una denuncia altrettanto forte delle conseguenze distruttive della politica economica del governo e della Commissione europea, una politica spacciata come terapia anti-crisi che invece alimenta la crisi stessa e impedisce di superarla? Quando riflettiamo su questo giornale, sulle sue ambizioni e sui suoi limiti, dobbiamo partire da questa consapevolezza.

Se il manifesto cessasse di esistere, sarebbero privati di voce – tacitati, ammutoliti – quanti in questo paese ancora non si rassegnano ad assistere silenti allo scempio della giustizia, dei diritti, della dignità delle persone, che pare essere il nuovo fondamento della nostra Repubblica.

Tornando alla Lettera aperta, mi sembra che essa abbia posto in primo luogo, esplicitamente e con la sua stessa esistenza, una questione grande e complessa di democrazia. La sovranità politica è stata sottratta alla cittadinanza da riforme istituzionali e leggi elettorali che le impediscono (da vent’anni) di essere rappresentata nella sua reale composizione politica, e dall’architettura dell’Unione europea che affida alla Commissione europea gran parte dell’agenda politica dei paesi membri. Ma questo è solo un corno del problema.

L’altro, come ha osservato Claudio Gnesutta proprio discutendo la Lettera, riguarda l’organizzazione del consenso. Il funzionamento dei mezzi d’informazione o, meglio, di deformazione di massa. La manipolazione della cosiddetta opinione pubblica. La sua sostanziale (e paradossale) privatizzazione.

Questa crisi economica e sociale (lontanissima dall’essersi conclusa) è ormai una classica crisi di realizzo. Le economie capitalistiche non sono bloccate da un deficit di produttività o di domanda assoluta, ma da una drammatica e crescente carenza di domanda relativa. Oggi il generatore della crisi è la povertà dilagante in tutta Europa, povertà che consegue a una scarsa domanda di lavoro (figlia delle delocalizzazioni) che impedisce alle imprese di piazzare le proprie merci, determina fallimenti a catena, quindi provoca altra disoccupazione e nuova povertà. In una spirale drammatica che non potrà essere invertita senza regolamentare i mercati finanziari e senza rovesciare la logica deflattiva di politiche economiche e fiscali praticate nel nome di feticci («risanamento», «rigore», «pareggio di bilancio» ecc.) con una finalità essenziale e inconfessabile: blindare, all’interno dei paesi dell’eurozona e tra di loro, le gerarchie sociali e di potere generate da trentacinque anni di neoliberismo. Costi quel che inevitabilmente costa: miseria, disperazione, regressione morale e – come già accadde un secolo fa – recrudescenza della destra populista nazionalista e neofascista.

Questo schema è semplice e anche rozzo, ma non falso. Lo si potrebbe illustrare facilmente e trasformare rapidamente in senso comune. Invece avviene il contrario.

Ogni giorno la «grande stampa» (giornali e televisioni) rinnova la narrazione di una crisi misteriosa, nata non si sa dove né perché. La crisi è un mantra. Un’entità sovrannaturale. E un formidabile alibi per giustificare la rapina a mano a armata che Stati, governi e autorità comunitarie compiono a danno delle popolazioni, a cominciare dal mondo del lavoro subordinato (e del non-lavoro) soprattutto nei paesi mediterranei dell’Unione.

Nessuno o quasi tra gli operatori dell’informazione in grado di raggiungere il grosso della popolazione spiega mai per quale marchingegno il fallimento di banche e finanziarie private si tramuta nel rischio di bancarotta per gli Stati. Nessuno dice che le politiche di austerità non possono non alimentare recessione e deficit nei bilanci pubblici. Nessuno aiuta il pubblico a capire le ragioni di una povertà di massa che cresce di pari passo con la produttività del sistema (cioè con la potenziale ricchezza collettiva). Né lo aiuta a distinguere tra sprechi e spesa pubblica creatrice di lavoro. Nessuno infine, per venire al caso italiano, chiarisce mai le vere ragioni per le quali la nostra finanza pubblica sia gravata da una montagna di debiti.

Il risultato è un vero capolavoro: un consenso diffuso, pressoché inedito (fascismo e nazismo sono precedenti sui quali non sarebbe vano riflettere), a una politica economica (e non solo: di pari passo cresce l’incoercibile pulsione a consegnarsi all’arbitrio di «uomini soli al comando») utile soltanto a consolidare i rapporti sociali esistenti e ad accrescerne l’iniquità. Un consenso vero, fondato sull’assunzione acritica e zelante dell’ideologia del «risparmio» (cioè dei tagli indiscriminati) come panacea risanatrice.

Davvero si può non ritenere artefici di tale capolavoro giornali e televisioni che impediscono ai cittadini di capire cosa accade? Davvero è trascurabile il fatto che tutti i maggiori media italiani (Rai compresa, per interposta lottizzazione) sono controllati da magnati a tutto interessati fuorché a smantellare un sistema imperniato sulla sovranità (e l’impunità) della speculazione finanziaria?

Anche di questo grave vulnus inferto ai principi democratici la Lettera aperta parla, pur fugacemente. Quando ci si dichiara convinti che causa immediata dell’attuale disastro sociale non sia di per sé la crisi, ma proprio la politica predicata e praticata dalle autorità politiche e finanziarie italiane ed europee (a cominciare dai quattro destinatari della lettera); quando a ciò si aggiunge che questa attribuzione di responsabilità si contrappone alla verità ufficiale, quotidianamente riproposta da una stampa reticente o bugiarda; allora si dice a chiare lettere che oggi la cittadinanza è prigioniera di una trappola cognitiva che, disinformandola, la induce a compiere scelte autolesioniste. Il contrario esatto di quel che dovrebbe succedere in un sistema democratico degno di questo nome.

Vorrei ancora menzionare una ragione, tra le tante per cui la Lettera mi sembra importante. Una ragione meno evidente ma forse altrettanto rilevante. Alludo alla composizione della rosa dei firmatari alla luce delle loro competenze. Che una denuncia come questa non sia sottoscritta soltanto da economisti ma anche da storici e giuristi, da filosofi, politologi e matematici, questo non è di poco conto e non deve apparire casuale. Non si tratta soltanto di civismo o del fatto che è vezzo degli «intellettuali», da Zola in poi, firmare appelli più o meno significativi. Il motivo è anche un altro, riguarda il rapporto che – ne sono certo – ciascuno dei firmatari intrattiene col proprio sapere disciplinare.

Da decenni ci sentiamo autorevolmente ripetere che il nostro è il mondo degli specialismi. Da decenni improvvide riforme scolastiche e universitarie vengono smantellando quanto ancora resta di un’idea e di una pratica del sapere come conoscenza organica della realtà, e imponendo saperi settoriali e tecnicizzati, concepiti come strumenti atti a risolvere problemi già noti in partenza. È la morte civile della creatività, con buona pace di una retorica dell’innovazione asservita al mercato.

È, soprattutto, la fine della possibilità stessa di elaborare punti di vista critici. Col mettere insieme saperi diversi, apparentemente non comunicanti tra loro, la Lettera aperta sull’Europa parla anche di questo. E mi pare dica, molto semplicemente, che senza la capacità di misurarsi seriamente con la realtà sociale, economica, politica e istituzionale in cui si vive, non solo non vi è maggiore età, autonomia e responsabilità. Non vi è nemmeno vero sapere. A dispetto di tutti i riconoscimenti accademici di cui ci si voglia eventualmente fregiare.