Edizioni Junior, grazie alla cura di Francesca Antonacci (docente di Pedagogia e metodologia del gioco presso l’Università di Milano Bicocca) e Maresa Bertolo (docente di Game design presso il Politecnico di Milano), porta in Italia uno dei testi più importanti dei «game studies»: La cicala e le formiche. Gioco, vita e utopia di Bernard Suits. Professore di filosofia all’Università dell’Illinois dal 1959 e poi preside del Dipartimento di filosofia a quella di Waterloo dal 1966 al 1994 (e scomparso nel 2007), pubblica nel 1978 il libro Grasshopper: Games, Life and Utopia dove, contrapponendosi a Wittgenstein che nelle Ricerche filosofiche sostiene l’impossibilità di una definizione di «gioco» per pratiche a suo giudizio inassimilabili, propone attraverso una storia a metà tra la fiaba e la parabola una definizione di gioco che non solo rimane ad oggi quella più filosoficamente inattaccabile ma che ha portato la riflessione sul gioco a farsi strada in campi inattesi dallo stesso autore.

Nonostante il rigore filosofico, Suits nel suo libro gioca col lettore riprendendo la cicala della fiaba di Esopo, sostenendo che essa, prima di morire con l’arrivo dell’inverno, confidi a due formiche, sue discepole che vorrebbero salvarla fornendole riparo e cibo, le motivazioni per cui – come Socrate di fronte alla cicuta – non può sottrarsi al proprio destino e proponendo loro le motivazioni che fanno del gioco l’unica attività degna d’essere intrapresa, quanto meno nell’Utopia (esplicitamente richiamata fin dal titolo) di un mondo privato dai bisogni materiali.

Sono infatti i bisogni materiali, sostiene Suits tramite Cicala, che ci distolgono dal gioco per impegnarci in attività utilitaristiche, ma – una volta idealmente liberi da essi – l’unica attività davvero sensata sarebbe il gioco in quanto unica davvero libera da finalità esterne a essa. Nemmeno l’arte è completamente «autotelica» (cioè priva di finalità esterna) in quanto serve ad alleviare le fatiche e i dolori della vita. La definizione sintetica e geniale di gioco è: giocare è il tentativo volontario di superare ostacoli non necessari (p. 58).

Non si pensi ad un clamoroso spoiler che renda inutile la lettura del libro: gli esempi che riporta Cicala per supportare tale definizione e i tentativi dialettici di una delle due formiche – Scepticus – di trovarne punti deboli ne fanno una trattazione contemporaneamente gustosa (ad esempio nelle storie parallele di Porfirio Spia e Bartolomeo Strazio utilizzate per mostrare come anche i giochi di ruolo rientrino nella definizione) e filosoficamente rigorosa.

L’ottica utilizzata da Suits per definire filosoficamente il gioco è (paradossalmente?) alla base dell’utilizzo delle meccaniche ludiche in contesti estranei al gioco nella «gamification». Gli psicologi del lavoro hanno infatti utilizzato l’analisi di Suits per proporre ai lavoratori di un’azienda tramite un gioco – magari a premi – attività non sempre gradite, come la formazione, in modo coinvolgente e sottratte al meccanismo della contrattazione. Altri ambiti di utilizzo sono quelli della promozione di prodotti o servizi utilizzando dinamiche ludiche per fidelizzare la clientela. Infine quello della didattica ludica è un campo sempre più approfondito per portare nella scuola, dalla primaria all’università, l’inclusività ed il divertimento del gioco finalizzato all’apprendimento.

Tutto ciò avviene perché chi lavora, chi valuta un prodotto o un servizio, chi studia tende spontaneamente al minor sforzo, al risparmio di denaro e di energie. Chi invece gioca, si diverte in modo particolare a mettere alla prova le proprie capacità e a tentare di superare i propri limiti. In questo modo l’attitudine «lusoria» viene completamente ribaltata ad appannaggio di motivazioni esterne al gioco che funzionano tanto meglio quanto meno ne è consapevole il giocatore.

Suits si pone in netta contrapposizione con gli studi classici sul gioco: in particolare con I giochi e gli uomini di Roger Caillois. Pur non affrontando direttamente il saggio del sociologo francese, nega a più riprese che il girotondo (e attività simili) possa essere considerato un gioco. Al contrario Caillois ne faceva (assieme a gioco di ruolo, di fortuna e di abilità) uno dei pilastri della sua interpretazione della società. Il gioco di vertigine (ilinx) assieme a quello di maschere (mimicry) rappresentano per Caillois il fondamento delle società antiche basate sullo sciamanesimo in cui al centro della cerimonia religiosa c’è la possessione dei celebranti tramite l’estasi e la vertigine ottenuta anche tramite danze sfrenate.

Sostenendo che i giochi di vertigine non siano giochi, implicitamente Suits toglie tale status anche alle attività ludiche presenti nel regno animale ed alla pretesa di Huizinga e dello stesso Caillois di spiegare lo sviluppo della cultura umana mediante il gioco. La posizione suitsiana però va letta nell’orizzonte linguistico dato che l’inglese utilizza il termine game per l’artefatto ludico mentre play è utilizzato sia per l’attività di gioco sia per indicare attività performative quali suonare o recitare. In questo senso il gioco definito da Suits sembra più legato al game, mentre per il play occorre piuttosto andare a chiedere ad un altro classico del gioco, curiosamente uscito, nella sua prima edizione, lo stesso anno del libro di Suits: The Well-Played Game di Bernie DeKoven. Il titolo nell’edizione del 2019 di Erickson è diventato Buon gioco, in qualche modo tradendo il significato originale di «gioco ben giocato». DeKoven – basandosi sulla sua attività di insegnante di sostegno – mostra come il giocare (play) sia un’attività che va oltre il gioco stesso (game) diventando una vera filosofia di vita quando, nell’accettazione sia delle vittorie che delle sconfitte, massimizza il piacere di stare assieme.

Due testi che, assieme, permettono di riflettere sulle sfaccettature del gioco come attività non da relegare agli interstizi della vita e del lavoro ma centrale nella vita dell’essere umano.