In uno dei suoi lungometraggi la filmmaker, studiosa e femminista vietnamita Trinh Minh-ha scrive «non appena si mostra un paese e si parla di una cultura in qualsivoglia modo, si entra nella finzione benché si aspiri all’invisibilità». Ogni volta che si tenta di descrivere un paese e le sue culture cioè, anche quando animati da buone intenzioni, si finisce quasi inevitabilmente per finire nel costruito quando non nell’apodittico, un discorso che è ancor più valido per territori che sono geograficamente isolati come l’arcipelago giapponese ad esempio. Quando si tentano di descrivere alcune tendenze nipponiche recenti, se ne criticano certi aspetti o dall’altro lato dello spettro se ne esaltano altri, ci si scontra quasi sempre con un vespaio di critiche e una generale alzata di scudi.

Questo perché esiste una narrazione dominante che vuole descrivere il popolo giapponese come omogeneo e docile, una narrazione tossica frutto di un’immagine prestabilita cristallizzata negli ultimi secoli e che caratterizza il Giappone come Altro rispetto all’Occidente, ma anche Altro rispetto all’Oriente dove è situato geograficamente ma a cui sembra non appartenere.

Ad aggravare questa situazione si aggiunga il fatto che questa concezione dei giapponesi come popolo omogeneo e poco propenso alla rivolta ed alla protesta è una narrazione che viene usata nel discorso corrente giapponese per definire il proprio paese e popolo e così esaltarne l’unicità, la cosiddetta sindrome di Galapagos. Una prospettiva non di per se totalmente errata, lo scandalo è quando diventa questa diventa l’unica verità che circola nel mediascape contemporaneo internazionale. Ad equilibrare il tutto e a fornire un quadro più complesso e storicamente interessante ci ha pensato lo studioso William Andrews con il suo volume Dissenting Japan – A History of Japanese Radicalism and Counterculture, from 1945 to Fukushima (Hurst, Nonfiction),  attenta e approfondita esplorazione dei movimenti di protesta radicale e di rivolta avvenuti nell’arcipelago nel dopoguerra.

Partendo dalle macerie reali e politiche del 1945 l’autore scandaglia e porta alla luce quanto l’impeto di andar contro l’ordine costituito abbia determinato molti dei cambiamenti storici e culturali avvenuti nella seconda metà del secolo scorso nel Sol Levante. Dalle veementi proteste contro il trattato di sicurezza fra America e Giappone, vere e proprie rivolte che portarono nelle strade e nelle piazze, non solo quelle di Tokyo è bene ricordarlo, centinaia di migliaia di persone, alle proteste che continuano ancora oggi nell’isola di Okinawa.

Fino alla formazione dell’Armata Rossa Giapponese, con la conseguente radicalizzazione delle lotte ed il processo autodistruttivo e di balcanizzazione dei movimenti nella seconda metà degli anni settanta. Una cavalcata storica che ha il pregio di rivelarci, grazie ad un ampio numero di dettagli, numeri e figure cruciali, un volto del Giappone poco conosciuto, un movimento di rivoluzione che nei momenti più riusciti si legò al cinema, al teatro underground ed alle altre arti visive con risultati esteticamente e politicamente di altissimo livello. Un viaggio che passa anche per gli anni ottanta, quando il cosiddetto benessere economico gonfiato dalla bolla economica assopì gli animi e che arriva fino ai nostri giorni, quando nell’era post-Fukushima secondo
Andrews si avverte una certa rinascita dei grandi movimenti di antagonismo e protesta, specialmente nelle giovanissime generazioni, il che è un segno di speranza.

matteo.boscarol@gmail.com