Com’è nata la letteratura ebraico-americana? Se la risposta immediata è da ricercare nell’immigrazione massiva e nella successiva integrazione (lenta e tutt’altro che semplice) che ha portato queste due culture – così diverse tra loro – a incrociarsi, sedursi e fondersi facendo nascere qualcosa di ben definito e completamente nuovo, e altresì vero che senza alcuni scrittori questo processo non sarebbe mai avvenuto.

ABRAHAM CAHAN è indubbiamente il primo autore riconoscibile di questa letteratura, capace di gettare le basi di quello che poi, mutando, sarà presente nei lavori di alcuni grandi scrittori come Saul Bellow, Bernard Malamud e Philip Roth, fino ad arrivare a Michael Chabon. Il suo Yekl – Un racconto del ghetto di New York (Mattioli 1885, pp. 156, euro 10,00) è un libro figlio della grande immigrazione di cui lo stesso Cahan è stato protagonista e vittima: un nuovo mondo dove vivere e sperimentare le novità che la vita regala. E dentro questa nuova realtà – dove l’inclusione linguistica e culturale va a braccetto con un’impercettibile inadeguatezza sociale – si muove Yekl che sembra essersi completamente liberato dalla zavorra della sua identità passata abbracciando calorosamente l’America, accogliendo tutte le sue usanze, stravaganze e, soprattutto, i suoi vizi. Quindi cerca di imitare il modo di parlare in voga a New York, indossa gli abiti che indossano gli americani e soprattutto cede piacevolmente alle passioni sessuali che gli sembrano così vive da annebbiarlo e corromperlo. Quello che in maniera più estrema e morbosa avrebbe fatto confessare Philip Roth al suo protagonista nel Lamento di Portnoy.

MA UNO DEGLI ELEMENTI fondamentali della letteratura ebraico-americana è sicuramente l’umorismo che si interseca con la storia e riesce a creare paradossi grotteschi in cui il protagonista diventa un vero e proprio prigioniero e il suo senso di inadeguatezza moltiplica ancora di più il lato divertente delle situazioni.

L’elemento che cambierà la linea della storia, facendo prendere agli eventi una piega inaspettata, sarà l’arrivo dalla Russia della giovane moglie del protagonista che sembra essere la rappresentazione fisica di un passato da cui Yekl non riesce a liberarsi. È una timorata di Dio, ebrea ortodossa, vestita poveramente con una scialba giacchetta e, soprattutto, con i capelli nascosti sotto una parrucca voluminosa, nera come la pece. La particolare situazione, insieme alle sensazioni prodotte da questo elemento paradossale, sproporzionato e strano, riesce – allo stesso tempo – a divertire e a mostrare ferite profonde e quel senso di estraneità con cui l’autore riesce a raccontare la vita degli ebrei che vivevano nel ghetto e che erano da poco sbarcati negli Stati Uniti. Questo cortocircuito di emozioni di cui Yekl è vittima e carnefice ci fa provare empatia per lui. Però, forse, la vera parrucca è quella che indossa quando imita il modo di vivere degli americani, nel disperato tentativo di essere accettato e, soprattutto, di accettarsi.