C’è analogia tra il precetto biblico che comanda di tenere separati la carne e il latte e l’imperativo categorico che guida e condiziona buona parte della ricerca storica imponendo allo studioso impegnato a scrivere en historien pur di mantenersi a distanza dal suo oggetto d’indagine. In ambedue i casi si vorrebbe superare una contraddizione: separare simbolicamente il morto dal vivo rende lecito mangiarne in buona coscienza, confinare in un altrove l’oggetto d’indagine rende lecito parlarne con scientifico distacco. Dopodiché, altro non resta che opporre senz’altro la posizione di chi si attiene alla regola che consente ricostruzioni storiche «massimamente plausibili», e chi persiste nell’attenersi a un approccio interno alla realtà studiata, escludendo ogni altra meno elementare procedura. Tale è la posizione dichiaratamente assunta da Fernando Bermejo-Rubio, studioso di cristianesimo antico e autore di un ponderoso libro dedicato alla ricerca storica su Gesù: L’invenzione di Gesù di Nazareth Storia e finzione (Bollati Boringhieri «Saggi», traduzione di Elisa Tramontin e Silvia Sichel, pp. 702, € 32,00). Ricerca che a suo avviso tende tuttora a sottrarsi all’esigenza di un discernimento critico a causa della «preponderanza di discorsi caratterizzati da una fantasia in maggior o minor misura sfrenata, in cui il processo di mitizzazione/mistificazione lascia un’impronta costante» (p. 11).
Di qui l’esigenza di procedere a un’indagine a tutto campo in grado d’investire innanzitutto questioni di metodo relative alla costituzione di Gesù come oggetto di studio storico; quindi di proporre una ricostruzione della sua identità liberata da una quantità di precomprensioni operanti anche al di là di convincimenti fideistici; di dar conto dei processi psichici, socio-religiosi e ideologici attraverso i quali si è operata l’esaltazione e la divinizzazione della figura di Gesù; infine di presentare una ricostruzione critica della stessa storia dell’indagine moderna sulla vita di Gesù. In appendice al volume il lettore trova inoltre una sequenza di puntualizzazioni su questioni di dettaglio, quali il concetto di regalità e l’idea del «Dio Padre» in Gesù, i racconti dei miracoli, ecc., che non lasciano dubbi sull’intento di separare in radice il punto di vista dello storico da quello di quanti trasmisero dapprima la memoria di Gesù confluita nelle scritture dei Vangeli.
A tenere insieme questa lunga indagine c’è in effetti la ricorrenza, da un capo all’altro, di uno stesso motivo conduttore: la vita di Gesù così come ci è raccontata dagli scritti cristiani del primo secolo altro non è che una «finzione storica», realizzata adattando il modello mitologico del giusto sofferente, presente nella tradizione ebraica, al fine di rappresentarlo come un essere di natura sovraumana, unica e incomparabile. A tale finzione storica, lungamente elaborata dal pensiero teologico, dalla letteratura spirituale e dall’arte nel corso dei secoli, si sarebbe aggiunta in epoca moderna e fino a oggi una «finzione storiografica» nella misura in cui la ricerca storico-critica ha seguitato ad «accogliere in modo aprioristico la natura speciale delle fonti cristiane, accettando la parte essenziale del loro messaggio a proposito di Gesù» (p. 401). Il compito che al contrario Bermejo-Rubio si è assunto è di mostrare fino a che punto l’immagine idealizzata di Gesù non regga alla prova della valutazione critica e di determinare quella che «abbia più opportunità di recuperarne l’identità storica» (p. 45).
Ma come fare? Da dove cominciare per dipanare una matassa tanto aggrovigliata? Come venire a capo di una questione enormemente cresciuta su se stessa, senza infilarsi a propria volta in approssimazioni, controversie, vicoli ciechi? Bermejo-Rubio ha creduto di trovare un punto di attacco capace di semplificargli al massimo il compito. Ha cominciato dalla «fine», cioè dal racconto della condanna a morte di Gesù, convinto che se fosse riuscito a dimostrare che le cause della crocifissione furono con tutta probabilità altre da quelle addotte dai Vangeli, l’intera costruzione dell’immagine di Gesù quale individuo sui generis e unico sarebbe crollata come un castello di carte, evitandogli la fatica di misurarsi a fondo con una letteratura che si svelava essenzialmente apologetica e perciò in larga misura storicamente inattendibile. Il convincimento dello studioso è infatti che l’unica ipotesi che conduca a una comprensione adeguata della crocifissione è che Gesù sia stato considerato dal procuratore romano come un visionario religioso con pretese regio-messianiche. Pur nell’impossibilità di chiarire entità e forme dell’ostilità di Gesù al potere romano a causa del rimaneggiamento subito dalle fonti, ci sarebbero infatti sufficienti indizi, a cominciare dalle modalità della sua morte, per supporre che, quantomeno nella parte finale della vicenda pubblica, egli abbia operato a favore di una restaurazione nazionale di Israele, forse anche con l’uso delle armi. Non si trattò pertanto di un errore giudiziario: la condanna di un innocente, né di un complotto delle autorità giudaiche subito da Ponzio Pilato; bensì dell’eliminazione di qualcuno che «aspirava all’istaurazione di un utopico regno messianico» (p. 134).
Va da sé che alla luce di questo approdo storiografico tutte o quasi le «incoerenze» dei racconti evangelici possono essere sciolte separando di netto quanto si ritiene essere stata la realtà storica della figura di Gesù da quanto vi è stato sovrapposto per giungere a promuoverne l’immagine di un essere soprannaturale, oggetto di un nuovo culto religioso. In tal modo tutta la rappresentazione della vicenda trasmessa dai Vangeli muta di segno. Già l’attività penitenziale di Giovanni Battista – al cui seguito Gesù avrebbe sviluppato il proposito di dar vita a un movimento popolare – avrebbe avuto implicazioni politiche a carattere eversivo. Il rapporto esclusivo stabilito da Gesù con i discepoli sarebbe stato indispensabile alla creazione di un gruppo coeso alla guida di un movimento di massa. La stessa nozione di «regno di Dio» sarebbe stata utilizzata da Gesù come un potente simbolo religioso di liberazione politica. Parimenti il comandamento dell’amore per il prossimo andrebbe inteso come rivolto esclusivamente ai membri della comunità culturale d’Israele al fine di rafforzare la solidarietà interna al popolo in contrasto con l’occupante. L’attività taumaturgica di Gesù andrebbe collegata al progetto messianico, anche come modo di legittimazione popolare. E così pure sarebbero da porre in relazione con il progetto di ricostituzione nazionale sia il suo interesse per i peccatori e gli emarginati dalla società, sia il suo associarsi a membri delle classi potenti e agli esattori delle imposte.
In definitiva l’identità storica di Gesù non si differenzierebbe più di tanto da quella dei numerosi profeti popolari dell’epoca, cosicché «la sua vita e il suo progetto acquistano un senso unicamente nel contesto delle speranze e delle illusioni del suo popolo, in particolare di coloro che aspirarono a una restaurazione d’Israele nelle difficili condizioni della dominazione romana» (p. 251). E tuttavia se tutto o quasi torna in una siffatta ricostruzione storica è perché Bermejo-Rubio si è applicato a un’opera sistematica di «purificazione» delle fonti, eliminando quanto ne specifica il carattere essenzialmente religioso, vale a dire la loro proprietà a stabilire una relazione con un passato per renderlo parlante laddove è in gioco un essenziale. Si è così vietato di scavare nelle tensioni che attraversano i racconti evangelici e quindi negli innumerevoli tentativi di comprendere che ne sono seguiti fino a oggi. Ha creduto di poter spiegare, separando la vicenda di Gesù da quella dei seguaci, un passato da un presente; mentre anche per lo storico si tratta di comprendere, qualunque sia il caso in questione.