Il lavoro cinematografico di Kevin Jerome Everson si offre come un punto d’intersezione fra diverse discipline espressive. Situandosi fra la performance e l’arte figurativa, l’antropologia e la documentazione sociale, il suo corpus filmico sfida naturalmente la tradizionale definizione di documentario.
Del documentario Everson conserva solo l’approccio osservazionale e una forte attenzione nei confronti della durata del tempo che il regista mette in scena attraverso un approccio derivato da una fortissima attenzione nei confronti della performance.

Quest’ultima, pur alimentata dalle tensioni che hanno attraversato le avanguardie statunitensi a partire dalla fine degli anni Sessanta in poi, è l’elemento, comune a tutti i suoi film, attraverso il quale lo sguardo di Everson osserva il reale. Eppure, in tutti i lavori di Everson, anche quelli apparentemente più astratti, il gesto resta ancorato a una sua immediatezza oggettiva. L’azione, infatti, è alla base del suo cinema. Basti pensare a The Pritchard, un cortometraggio nel quale un giovane afroamericano spinge la sua macchina priva di carburante oppure a Old Cat, in cui due giovani attraversano un fiume su una barca. Il gesto e l’azione diventano un grumo di tempo che il lavoro di documentazione del cinema scioglie in un flusso dove la percezione muta in esperienza.

ORIGINARIO dello stato dell’Ohio, nome derivato dalla lingua iroquois che significa «grande fiume» (elemento che ritorna in Erie), Everson elabora il nucleo del proprio cinema ponendo al centro della maggior parte dei suoi lavori filmici la cittadina di Mansfield nella quale è nato.
Le modalità attraverso le quali il regista elabora sia la mitologia dello stato dell’Ohio che la storia della classe operaia afroamericana attraverso le vicende della sua migrazione verso nord e sud, la frontalità attraverso la quale il dato oggettivo è registrato, la centralità del lavoro e l’enorme attenzione dedicata ai corpi che svolgono un lavoro, fanno di Everson non solo un cineasta intimamente politico ma, soprattutto, profondamente americano.
In un momento storico nel quale il cinema statunitense sembra avere perduto completamente il senso del suo essere espressione di un territorio e di una storia (stando almeno alla produzione dominante ed esportata), l’insieme del lavoro di Kevin Jerome Everson si pone come l’immagine di una storia che è a sua volta il frutto di altre storie.

Come dire che le modifiche di un territorio si originano a partire dalle modifiche, indotte dall’organizzazione del lavoro, nei e sui corpi della classe operaia.
Uno degli elementi che maggiormente contribuiscono alla singolarità del lavoro di Everson è la modalità attraverso la quale l’autore restituisce al paesaggio americano la presenza afroamericana (esemplare in questo senso la serie di film dedicati ai cowboy raccolti in Ten Five in the Grass dove gli esercizi con il lazo per fare pratica di roping o i tornei di equitazione con relativo addomesticamento del cavallo sovvertono radicalmente l’immaginario classico di un’attività che la mitologia western ha sempre presentato come eminentemente bianca).

ED È PROPRIO il lavoro l’elemento che permette di storicizzare i tempi che lo sguardo di Everson attraversa e rimette a disposizione come una sorta di archivio mobile. È nel luogo-narrazione del lavoro, messo in scena, raccontato, rievocato, analizzato dove il suo fare cinema si mette in scena come dispositivo e collante sociale. Nel lavoro si rivela il cinema di Everson. Ed è questo reciproco riconoscersi come lavoro che permette a Everson di reclamare il proprio posto in seno alla sua comunità.

IN QUESTO SENSO Everson non è molto lontano dal pragmatismo empirico del miglior cinema americano. Everson, come Howard Hawks è animato da una morale del fare che si traduce inevitabilmente in un progetto di comunità. La precisione dell’esecuzione dice della necessità del lavoro e della sua moralità, cosa questa esplicitata in maniera esemplare in Cinnamon. Così, rilanciando la centralità politica del fare, incarnato nell’icasticità del gesto, Everson assume, nel panorama del cinema nordamericano contemporaneo, la posizione cruciale di un artista che dalla precisione antropologica delle sue osservazioni fa discendere l’affidabilità documentaria del suo lavoro.
Come sostiene Cesare Pavese nel dialogo La nube – contenuto in Dialoghi con Leucò: «Tu sei tutto nel gesto che fai»