«Oggi tutto deve essere fascista perché nulla esisterebbe senza il Fascismo», affermava perentoriamente nel 1931 Guido Cristini, presidente del Tribunale speciale per la difesa dello Stato proprio in quegli anni. Di lui successivamente si ricorderà che rispetto al suo predecessore, e a chi lo avrebbe sostituito, si rivelò il più duro e determinato repressore di antifascisti, comminando il maggiore numero di condanne a morte. Ma al di là della feroce determinazione persecutoria, la ricostruzione che Paolo Dell’Osa, giornalista e studioso, ne offre nel suo studio su Il Tribunale speciale e la presidenza di Guido Cristini (Mursia, pp. 350, euro 19), restituisce al lettore uno spaccato dell’Italia fascista negli anni di maggiore vigore del regime. Cristini, figura poco conosciuta ai non addetti ai lavori, esercitò un ruolo di rilievo nelle istituzioni fasciste tra il 1928 e il 1932, presiedendo proprio quella magistratura speciale che, nell’ottica del regime, doveva non solo adoperarsi nella repressione di ogni forma di opposizione ma anche nella definitiva cessazione del sistema di tutele penali di cui lo Stato liberale aveva costituito, nella sua pur fragile storia, un presidio.

IL VOLUME non si interroga sulle dinamiche interne al regime, adoperandosi semmai nella ricostruzione sia dell’attività del Tribunale che, soprattutto, dell’indirizzo dato ad esso da Guido Cristini. Ne emerge uno spaccato sconfortante, dove alla costante lesione dei diritti degli imputati, alla sospensione delle garanzie dello Statuto albertino, si accompagna l’uso disinvolto di una posizione di potere, e delle prerogative che ad essa si associavano, per curare i propri interessi personali e di famiglia. La coesistenza, nel regime fascista, di un ordinamento spiccatamente illiberale con la curatela di reti clientelari, ispirate ad un familismo amorale vissuto come naturale espressione della capacità di governare il territorio, è peraltro un dato assodato, essendo parte stessa del suo peculiare dispositivo totalitario. La biografia di Cristini, quindi, non ci offre l’immagine di un fascista ideologico ma di un opportunista che credeva nel regime nella misura in cui ciò gli permetteva di meglio realizzare i propri obiettivi, garantendo come contropartita il presidio della società locale, in questo caso quella abruzzese. In un irrisolto rapporto di mediazione e competizione con le altre figure del potere locale.

IL GERARCA, peraltro, non risultava estraneo alla precettistica fascistica, alla quale rivelava comunque di credere intimamente e, quindi, di ispirarsi nei fatti. Ne faceva semmai un uso personalistico, piegato al beneficio proprio. Al punto di arrivare a derogare apertamente dagli stessi obblighi di «moralità» che il mussolinismo rivendicava, quanto meno sul piano dell’immagine ufficiale, come presupposto per continuare ad alimentare un consenso sociale sulla sua piattaforma politica. Anche per questo lo stesso Mussolini, entro il 1933, avrebbe messo termine alla sua presidenza, di fatto consegnandolo ad una condizione di crescente marginalità dalla quale non si sarebbe più riavuto. Cristini, malgrado la posizione occupata, si rivelò quindi un esponente troppo piccolo del regime per pensare di poterne influenzarne l’evoluzione, come invece successe con figure di altro spessore, quali Balbo, Ciano, Bottai, Farinacci e così via. Da questa subalternità avrebbe poi tratto vantaggio negli anni successivi, quando le cose mutarono di segno. Non aderendo alla Repubblica sociale italiana, rendendosi irreperibile quel tanto che sarebbe bastato per non pagare pegno e poi attraversando l’Italia repubblicana in una condizione di sostanziale imperturbabilità.