L’annuncio ufficiale è arrivato due settimane fa ma il suo nome circolava da diversi giorni: Irene Dionisio è il nuovo direttore del TGLFF, il Festival gay e lesbico di Torino mentre Giovanni Minerba, che lo ha fondato insieme al compagno Ottavio Mai 31 anni fa, ne diventa il presidente.
Minerba ha accennato all’inizio qualche polemica accettando infine la decisione tutta della politica (assessori vari), che nel «sistema cinematografico» torinese continua a essere fin troppo presente, «per il bene del festival». Certo poteva opporsi, prendersi il festival e farlo altrove – nella «sua» Puglia ad esempio – ma in fondo ne aveva già avallato tempo prima il processo di normalizzazione cambiandone il nome, così che «Da Sodoma a Hollywood» come si chiamava, era divenuto il molto più rassicurante TGLFF – un cambiamento peraltro non neutro perché aveva coinciso con una progressiva «formattazione» della programmazione.

 

 

 

 

L’energia originaria, l’irrequietezza che facevano del festival lo strumento indispensabile per capire non solo il rapporto tra la realtà e gli immaginari Lgbt ma in qualche modo il sentimento del presente tutto si era perduta. Dunque ecco il rinnovamento che però, anche nella nuova amministrazione Cinque stelle, ha seguito le stesse logiche – il nome «famoso» – dei red carpet Pd: una regista, poco importa se di lavoro sul gender nel suo percorso non ve ne sia quasi traccia (un doc, Così è se vi pare, sul movimento per la vita).

 

 

Irene Dionisio l’avevamo scoperta con il molto buono La fabbrica è piena, quest’anno l’esordio nel lungometraggio, Le ultime cose – nel quale tra l’altro la figura del transessuale è la cosa peggiore. Giovane, di sicura ambizione, ha accettato l’incarico apparentemente senza troppo interrogarsi sul patrimonio del festival in questione.
Eppure bastava aprire il sito – sul quale nulla ancora è cambiato: alla voce «chi siamo», in cui se ne ripercorre la storia, con un un’immagine di Minerba e di Ottavio Mai abbracciati, è subito chiaro quanto sia stato forte e imprescindibile in questo festival il legame tra la sua fabbricazione e il vissuto di chi ne era parte, di chi lo ha progettato per anni, tantissimi sono passati da quella che è stata una palestra di allenamento preziosa al punto che molte figure chiave delle strutture festivaliere torinesi arrivano da lì.

 

 

 

 

E questa coincidenza non è solo una questione di gender: è che non si può pensare a un lavoro su una materia così sensibile che non metta in gioco qualcos’altro, che non superi una linea stretta, intima persino di conoscenza per scartare l’ovvio, il banale, lo stereotipo. Non a caso il festival è stato sempre un riferimento primario per la comunità Lgbt torinese e non solo, ma anche per chi voleva «misurare» il movimento (e i paradossi) dell’immaginario e della realtà quasi che lì, sul bordo di questa esperienza fosse possibile dare corpo alle domande urgenti del nostro tempo – dentro e fuori dal «genere».

 

 

O forse questa scelta ci vuole suggerire qualcosa di diverso? I soliti informati dicono che il festival cambierà, che diventerà «altro », cosa non si sa ancora, ma probabilmente un «festival generalista», abbandonando perciò la centralità del gender. Il che sarebbe l’ennesima assurdità (anche dal punto di vista economico, tema così caro ai Cinque stelle) perché un festival così la città lo ha già ed è il Torino Film festival.

 

 

Ma prima ancora della «concorrenza» davvero si vuole mettere fine al festival Lgbt? Non ne abbiamo più bisogno? In questa epoca di neo-medioevo è meglio rifugiarsi in una politicità senza spigoli, nella culla rassicurante delle immagini che compiacciono il proprio narcisismo e i propri obiettivi? O invece si tratta di incapacità?
In ogni caso una bruttissima storia sulla quale il Museo del cinema – che coordina tutti i festival torinesi – e le forze in campo, compresa la neo-direttrice, farebbero bene a riflettere con maggiore attenzione.