Bentornata, Constanza. Confesso che ne sentivamo la mancanza, della regista e coreografa argentina. Ci eravamo lasciati tre anni fa sull’onda dell’energia fisica e del piacere profusi nel ballo dallo scatenatissimo ensemble di danzatori sudafricani di On fire. E messi così da parte ipotetici riflessi post-coloniali, quando alla fine un’interprete veniva fuori a dire: il riscaldamento è finito, sembrava chiaro allo spettatore che quel viaggio non fosse ancora finito, che lo spettacolo vero dovesse ancora iniziare. Sarà dunque quest’altra creazione di Constanza Macras cui stiamo assistendo, la trascinante Hillbrowfication (purtroppo solo per due sere all’Arena del Sole), lo spettacolo allora mancato? A suggerirlo potrebbe essere anche il fatto che qui ancora di più l’artefice sembra fare un passo di lato, lasciando che lo scatenamento del ballo prenda il sopravvento sul riconoscibile gesto coreografico della sua compagnia DorkyPark, di cui sono rimasti in scena solo in due. Come residui testimoni, peraltro perfettamente integrati nel gruppo malgrado la vistosa parrucca color fucsia che connota una di loro.

HILLBROW è una zona centrale di Johannesburg. Un tempo quartiere residenziale di borghesia bianca che l’aveva poi abbandonato in anni post-apartheid, lasciando che cominciasse a popolarsi di immigrati di altri paesi africani, mentre cresceva il tasso di violenza e criminalità. Una specie di gentrification al contrario, a questo sembra alludere il titolo. Da lì vengono quasi tutti gli interpreti, una ventina di giovani e giovanissimi. Per chi segue fin dagli inizi l’artista argentina, e sono più di una quindicina d’anni dagli esordi con lo sregolato Back to the present che si era visto ad Avignone, la memoria corre inevitabilmente ai ragazzini di uno dei suoi primi lavori, Scratch Neukölln, ambientato nel quartiere berlinese approdo dell’immigrazione turca.

A ESORCIZZARE il rischio di una banale sociologia, la drammaturgia di Tamara Saphir cala quel mondo dentro una cornice fantascientifica. Siamo in un futuro che guarda al XXI secolo come un paradiso perduto. L’avvento di una misteriosa «barriera» ha anticipato un’invasione aliena che ha eliminato chiunque non fosse in grado di ballare, uno sterminio che risparmiò molti africani e costrinse gli altri a imparare qualsiasi danza. La panzula, per esempio (chi non conosce può farsene un’idea su youtube). Insomma, gli uomini ballavano tutto il tempo e ogni stile assumeva un connotato politico – se il balletto classico ha un chiaro orientamento di destra, i danzatori contemporanei sono un mucchio di anarchici. L’ironia fa bene, dice uno di loro.

È UN PRETESTO, ovviamente. Per mettere in scena il piacere fisico della danza, in cui si intrecciano i fili di tante storie individuali. Una coloratissima arlecchinata di costumi fantasiosi, volti dipinti, ciaffi che passano di mano, mentre le percussioni suonate dal vivo si mescolano a una colonna sonora molto fusion, ci sarà anche una distorta versione dell’Hallelujah di Leonard Cohen. Macras non rinuncia a mettere in gioco il suo spaesante immaginario, dove i bambini corrono su motorette giocattolo e non stupisce la presenza di uno con la testa da riccio di mare (ma comparirà a un certo punto anche un uomo-cactus altrettanto spinoso).
È un pretesto, ma dietro il prolungato rituale di lotta collettiva con cui si chiude lo spettacolo quel mondo si apre a un futuro possibile, o a tanti possibili futuri. Nel segno di quei giovanissimi.