Il tempo in cui viviamo ha bisogno di eroi sportivi? Ci sono eroi nello sport di oggi o solo divi? In quale contesto matura la figura dell’eroe sportivo che resta nella memoria collettiva? Ne parliamo con Daniele Marchesini, docente di Storia contemporanea all’Università di Parma, autore di Eroi dello sport (il Mulino, euro 16).

Perché un libro sull’eroismo sportivo? 

Da circa vent’anni mi occupo di storia sociale dello sport, ho scelto il tema degli eroi per diversi motivi: lo sport occupa una certa rilevanza nella nostra vita quotidiana, in particolare quello di alto livello agonistico per gli interessi commerciali che esprime. Nello sport si riflettono gli elementi della nostra vita sociale, gli eroi o i divi dello sport sono i grandi, quelli che, come diceva Ugo Foscolo, «spingono a egregie cose gli animi», sono i grandi dei nostri tempi, più del profeta, dello scienziato, del politico, del letterato, alimentano i sogni, le aspirazioni, costituiscono un modello da imitare. Varie fasce di pubblico guardano a loro, grazie anche alla spettacolarizzazione dello sport, alla sua diffusione di massa attraverso la televisione e internet.

Chi sono gli eroi di oggi? 

Sono eroi che hanno a che fare molto spesso con il divismo, una dimensione che ha coinvolto anche l’ambito sportivo. Nel libro tendo a distinguere gli eroi dai divi. Per esempio Alberto Tomba, è stato un divo e non un eroe dello sport. Gli eroi sono quelli che sopravvivono nella memoria collettiva, anche a distanza di tanti anni.

È concepibile lo sport senza eroi?

No, o meglio sì se parliamo dello sport amatoriale, però anche in quell’ambito esistono dei modelli, ma lo sport di alto livello ha bisogno di eroi, di identificazione, che soltanto l’eroe sportivo, il grande personaggio rende possibile.

Quali prodezze rendono lo sportivo un eroe? 

È necessaria la prestazione di eccellenza, bisogna vedere anche all’interno di quale contesto matura, quale ricordo lascia nella storia dello sport, ma anche nella nostra sensibilità collettiva. Può essere vero anche il contrario, è il caso di Dorando Pietri, che alle olimpiadi di Parigi del 1908, dopo quasi tre ore di maratona, entra per primo nello Withe City Stadium davanti a ottantamila spettatori. Pietri cade cinque volte, sbaglia la direzione di marcia, impiega dieci minuti per fare il giro di pista finale, medici e assistenti giudici gli si fanno intorno e lo guidano verso il traguardo, che taglia 32 secondi prima dell’arrivo dell’americano John Hayes. Poi crolla al suolo. È stato aiutato e viene squalificato, la medaglia viene assegnata all’americano, ma il vero vincitore morale è il panettiere di Carpi, la foto barcollante sulle ginocchia mentre taglia il traguardo è tra le più conosciute in tutto il mondo. In quella vicenda ci sono tutti gli ingredienti dell’eroismo sportivo: il coraggio, la fatica, lo spirito di sacrificio, la volontà di portare a termine la gara, attingendo fino all’estremo delle forze. A distanza di un secolo tutti ricordano il nome di Dorando Pietri, nessuno quello di Hayes.

E lo sport di oggi? 

Alle olimpiadi australiane di Sidney nel 2000, Cathy Freeman vince i 400 metri e diventa eroe per la collettività del suo paese, perché rappresenta il riscatto di tutte le popolazioni indigene australiane. Il contesto in cui matura l’impresa determina il salto di qualità, il passaggio da campione a eroe. È il caso di Livio Berruti, che nel 1960 alle olimpiadi di Roma vince l’oro nei 200 metri, anche Mennea vince l’oro a Mosca nel 1980, ma il significato delle due vittorie è diverso. Quella di Berruti matura negli anni del boom economico, del grande rilancio dell’Italia, che a quindici anni dalla fine della guerra riesce a cancellare la natura di paese sconfitto. Tutti questi fattori si mescolano e fanno di Livio Berruti l’eroe di quel momento storico, fanno della sua vittoria un evento che segna un’epoca.

Sostiene che negli ultimi anni, il monumentale sportivo ha rimpiazzato la chiesa, il teatro, la fabbrica, la politica.

La politica è molto screditata, è più difficile trovare i «grandi» tra i politici, sapendo che lo sport sa suscitare passioni, emozioni, è molto più facile trovarli nel mondo dello sport. Per quanto riguarda gli impianti sportivi, oggi basta girare una grande città, ma anche quelle di media grandezza, per rendersi conto che ne segnano la fisionomia. I grandi appuntamenti sportivi, come le olimpiadi o i mondiali di calcio si identificano con questa grande attività edificatoria, per garantire lo svolgimento dell’evento, a volte con esiti disastrosi per i paesi che li ospitano, penso alle olimpiadi 2004 in Grecia. Le strutture sportive segnano l’identità di una città, sono stato recentemente a Cardiff, il Millennium Stadio, costruito per il rugby, passione nazionale dei gallesi, è nel pieno centro cittadino, non è stato costruito in aperta campagna, è visibile da qualsiasi punto della città. Una volta, nell’Ottocento, c’era la fabbrica con la ciminiera, la chiesa con il campanile, la stazione ferroviaria, opere che segnavano la città. Oggi il profilo di Londra è profondamente mutato rispetto a venti anni fa, grazie alle costruzioni edificate a seguito delle olimpiadi del 2012.

La morte prematura di un campione contribuisce a far sì che diventi un eroe? 

Sì, anche se non in tutti i casi. Il campione sportivo è sinonimo di vitalità, di gioventù, di invincibilità, però quando arriva l’imprevisto, magari nel pieno del fulgore agonistico, fissa in maniera indelebile il suo ricordo. Ci sono casi singoli come quello di Ayrton Senna o collettivi, come il Grande Torino, che a distanza di circa settant’anni è ancora oggetto di venerazione, molto dipende dal contesto in cui matura quel tragico evento. Dieci anni dopo la tragedia di Superga è il caso del Manchester United, quando nel 1958 l’aereo precipita in fase di decollo a Monaco di Baviera, si salvarono tre persone tra cui Bobby Charlton, non a caso il calciatore più venerato del calcio inglese, perché egli rappresentava il prima e il dopo l’incidente. Anche Fausto Coppi, che intorno al 1960 non era più il campione che era stato negli anni precedenti, oggi non sarebbe così presente nella memoria collettiva se fosse morto nel suo letto a ottanta anni, anziché a quaranta. La morte è sicuramente un ingrediente importante nel processo di affermazione dell’eroe sportivo.

Perché considera Tommie Smith un eroe perdente?

Tommie Smith sale sul podio, con il gesto del pugno chiuso si schiera a favore dei diritti violati delle minoranze nere, ma viene messo all’indice da un momento all’altro, espulso dal villaggio olimpico, rimandato in patria come se fosse un rinnegato. Mai era successo che a seguito di un evento, la politica facesse irruzione nella cittadella dello sport, quale era il villaggio olimpico, ritenuto qualcosa di separato rispetto al resto del mondo. Il grande sport era ritenuto quello che si collegava all’ideale di Pierre De Coubertin, al mondo classico, il villaggio olimpico doveva restare intoccabile rispetto alle miserie di tutti i giorni. Nel 1968, alle olimpiadi di Città del Messico, Tommie Smith, Carlos e altri, si macchiano di un delitto di lesa maestà, mettono in discussione i principi fondanti dello sport olimpico, quello di alto livello.

I termini eroici sono insiti nel linguaggio sportivo, oppure fanno parte della retorica dei giornalisti sportivi?

La stampa sportiva tende ad amplificare l’evento, per conquistare il pubblico, fa ricorso a titoli più strillati. L’eroe ha bisogno di chi racconta le sue gesta sportive, dal giornalista della carta stampata a quelli dei media più sofisticati. Senza il racconto di chi lo tramanda ai posteri, sarebbe impossibile l’esistenza dell’eroe sportivo, oppure esisterebbe ma in modi e forme diverse. Ci sono figure di commentatori che qualcuno non esita ad avvicinare a quella dell’eroe sportivo, perché fa parte di questo mondo e di questa logica, come Niccolò Carosio, che trasformava le partite di calcio in un’epoca in cui la televisione non c’era, in cronache visive destinate a un pubblico che non aveva la possibilità di seguirle dal vivo.