La retrospettiva Wladyslaw Hasior. European Rauschenberg? è un lodevole tentativo di riportare in quota il grande artista polacco, dopo l’oblio nazionale in cui era caduto negli Novanta. Oltre un centinaio di opere saranno esposte al Mocak fino al prossimo 27 aprile a Cracovia per cancellare una volta e per tutte ogni tentativo di damnatio memoriae.

Il dibattito pluridecennale sulla rimozione del monumento Iron Organ (1966) – vandalizzato ripetutamente dopo il 1989 – ha contribuito a creare il falso mito di Hasior «artista di partito». Concepito come una pantagruelica scultura sonora destinata a essere suonata dal vento, l’enorme organo di ferro installato installato a Czorsztyn, nella regione Podhale, non era certo un’opera realizzata su commissione. Una targa commemorativa ai combattenti comunisti, aggiunta dai dirigenti locali, aveva cambiato i suoi connotati, trasformandolo in un monumento di propaganda.

Il grande equivoco sulla figura di Hasior è basato anche sul fuoco, elemento vivo e parte integrante delle sue sculture en plein air in cemento, che colano orizzontalmente nel suolo. Le lingue di fuoco che sormontano le sue figure non richiamano di certo le fiamme eterne dei monumenti socialisti: «Nel 1960 ho estratto una forma scolpita dal terreno. Vi ho riconosciuto la figura di un San Sebastiano torturato. Ho deciso di accendere una fiamma sul suo petto», ha spiegato Hasior per raccontare la genesi degli uccelli di fuoco di Stettino e Koszalin e delle altre installazioni pirotecniche realizzate a Montevideo, Copenhagen e a Södertälje, in Svezia.

Un elemento che l’artista originario di Nowy Sacz non abbandonerà nemmeno negli ultimi anni di attività, scarsamente documenti dalla mostra cracoviana. Nella performance Ecological Alarm (1991), infatti, Hasior dà fuoco a un albero addobbato con delle mani di manichino.

La scelta degli organizzatori sembra riflettere la scarsa fortuna dell’opera di Hasior negli anni Ottanta e Novanta. L’eclettismo della sua produzione tarda non ha, infatti, mai incontrato il favore della critica polacca. Sempre più isolato, in vecchiaia l’«artista di regime» comprerà un cane da guardia per sentirsi al sicuro dalle minacce anonime nella sua galleria Autorska, un singolare museo-studio a Zakopane. Oltre a servire da alloggio, la «galleria di autore», voluta dalla burocrazia locale nel 1985, era anche la sua isola felice. Dalla scelta nell’allestimento delle proprie opere e della musica passando per l’organizzazione dei vernissage delle mostre di altri artisti, Hasior era il responsabile tout court del proprio spazio espositivo.

Il curatore della personale a lui dedicata, Józef Chrobak, ha deliberatamente optato per una provocazione apparente nella scelta del titolo. L’opera di Hasior non è mai stata nota oltreoceano. Inevitabile, dunque, che il suo nome non fosse tra quelli scelti per collettiva celebrativa The Art of Assemblage (1961) che si tenne al MoMA di New York. Certo è che il terroir non è quello di Rauschenberg.

Ci si potrebbe arrampicare sugli specchi mettendo nello stesso calderone i due artisti in virtù di un generico «spirito del tempo» che sembra aver guidato le sperimentazioni formali di entrambi. Dopotutto, i primi collage tridimensionali creati dall’artista polacco, in perfetta solitudine, seguono appena di un paio di anni il celebrato letto rauschenberghiano. Ma l’assenza di una riflessione sulla civiltà dei consumi nella produzione di Hasior resta un solco incolmabile, che separa nettamente la produzione dei due autori.

Cresciuto in una realtà in cui la circolazione dei beni era giocoforza limitata, Hasior ha pur sempre goduto di qualche privilegio negli anni della mala stabilizacja, «piccola stabilizzazione» gomulkiana. Il fatto che abbia girato l’Europa su due ruote in sella a una Jawa rossa 250, con qualche dollaro stropicciato nella scarpa, non sembra essere in contraddizione con la sua singolare spiritualità.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, Hasior tagliava e cuciva i suoi primi stendardi. Ispirati alla coreografia processionale, tali gonfaloni venivano realizzati utilizzando gli stessi materiali dei suoi assemblage: pelliccia, ritagli di stampe religiose, posate, bambole di plastica e piccoli soprammobili. Veri e propri oggetti di scena, gli stendardi hasiorani – a volte bruciati in occasione di alcuni happening – saranno poi anche utilizzati dall’artista per organizzare nel 1973 una processione a Lacko, con l’aiuto della comunità locale.

Attraverso i suoi collage tridimensionali, Hasior ha sempre rivendicato l’intimità dell’esperienza religiosa. La sua iconoclastia è testimoniata dal fatto che l’artista non abbia mai potuto contare su una committenza ecclesiastica. L’artista ha saputo coniugare in modo unico kitsch e ungeheuer, cannibalizando l’estetica del bibelot da salotto, che viene accostato in modo indedito al sacro.

La sua iconosfera è popolata da figurine di Cristo dal corpo tozzo in metallo, pezzi di pane, ninnoli, angeli «meccanici» dalle ali di aereo, schegge di vetro. Nell’assemblage Zwiastowanie (1966), l’episodio dell’annunciazione viene communicato attraverso un telefono incollato su tavola.

A volte, la figura di Cristo viene messa in relazione con quella di Icaro che precipita dal cielo in picchiata come un bombardiere. In modo diverso dalla bestemmia, tavolta programmatica della generazione dell’«arte critica» negli anni Novanta, l’opera di Hasior sembra provocare il sacer nel ventesimo secolo soltanto per interrogarlo.

 

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