Milano, settembre 2019, subito prima della pandemia, il Centro San Fedele è il riferimento per chi non riesce a pagarsi le medicine necessarie e grazie al lavoro di quella struttura può averle gratuitamente. È una folla che si ritrova agli sportelli, ciascuno con le sue ragioni, i suoi problemi, le sue storie, le sue richieste. Ci sono i migranti e ci sono gli italiani, i più anziani e i più giovani, chi come una signora dall’aspetto molto curato cerca di averne di più del consentito – «Ho l’ansia, a volte ne prendo metà per calmarmi il giorno» confida delle sue pillole per addormentarsi – e spiega che nel dormitorio dove vive le hanno rubato le confezioni. Sarà vero o è un pretesto? Chissà, ma la farmacista non fa eccezioni, la stessa regola vale per tutti. E c’è chi come una giovane donna che viene col suo bambino piccolo, spiega che le cure e le vitamine per l’infezione del sangue che lo ha colpito sin dalla nascita sono troppo care: «Almeno per me» dice alla macchina da presa con un sorriso che sembra quasi di scuse. Poco dopo un’altra giovane donna con due bimbi, la bambina ha la febbre, tossisce, chiede di un medico, vorrebbe che la visitassero ma non possono. Il pediatra le spiegano può averlo fuori fino a quattordici anni.

COMINCIA QUI Il fronte interno, il nuovo film di Paola Piacenza – appena presentato al festival Idfa di Amsterdam, sarà poi a quello di Torino nella sezione TffDoc/Noi; un «Viaggio in Italia con Domenico Quirico» che la vede nuovamente accanto al giornalista insieme al quale aveva condiviso un altro viaggio nel precedente Ombre dal fondo (2016). Ma se lì era la necessità che spingeva Quirico a tornare in Siria cercando i luoghi in cui era stato tenuto prigioniero a muovere il racconto, e dunque a comporre in questa traccia emozionale anche la mappatura della storia, stavolta l’obiettivo si sposta pur mantenendo in fondo la stessa necessità; che è quella cioè di cercare una narrazione della realtà, e nel particolare dell’Italia, capace di scavare nel profondo rompendo tabù, stereotipi, silenzi accomodanti che troppo spesso la condizionano.
Sarà forse questo che rende Quirico a tratti incerto nel Fronte interno mentre appariva muoversi con determinata sicurezza tra le macerie della Siria e gli incubi angosciosi del suo rapimento, come se in questa situazione avesse perduto alcune coordinate o gli fossero improvvisamente sfuggite. E noi come lui perché ciò su cui Piacenza riflette muovendosi tra nord e sud della penisola è la povertà che fa parte delle statistiche, dei numeri, delle inchieste ma che raramente appunto – o forse mai – prende forma con voci, esperienze e vissuti davanti al nostro sguardo se non nei frammenti sparsi tra i paesaggi urbani che abitiamo, davanti ai quali si passa in fretta o ci si abitua imbarazzati come a tanto altro.
Il giornalista all’inizio si schermisce, «non sono abituato a essere ripreso» dice – prova a chiedere come si può iniziare una conversazione senza risultare invadente, e lì dichiara e l’autrice insieme a lui lo sguardo di un film che rifiuta di stigmatizzare o di trarre conclusioni lasciando invece aperto il proprio orizzonte.

E QUELL’«INCERTEZZA» di Quirico sembra allora esprimere un interrogarsi sul nostro tempo, e su se stesso senza dare nulla per scontato – «Mi chiedo cosa farei se perdessi tutto un giorno» dice a un certo punto a una persona della Caritas – in un confronto che è ricerca e insieme allenamento del gesto di filmare il mondo.
Non è solo di una povertà «codificata» – chi vive in strada o chi è senza documenti – di cui si parla ma di uno stato diffuso che riguarda anche coloro con un lavoro, chi come dice Marco Revelli nella conversazione finale con Quirico un tempo era garantito e oggi ha perduto tutto, che sono silenziosi, che si nascondono nell’imbarazzo e nella vergogna. E così vediamo che tra il prima e il dopo lockdown – le riprese del film, a cui Piacenza ha lavorato quattro anni, attraversano i diversi momenti pandemici – non ci sono «vere» differenze, e che quanto sta accadendo era già lì, è stato semplicemente amplificato come molte altre cose dall’emergenza, e crescerà sempre di più in un futuro che intuiamo di mega-capitali e ricchezze. Una povertà questa che è materiale, di prospettive, di futuro, e che per chi è in uno stato fragile ha dilatato solitudine, incertezza.
Da Milano arriviamo a Palermo nell’aula dove i ragazzini di una scuola media non sembrano manifestare alcun interesse verso lo studio, con la sicurezza che non gli servirà a nulla. Qualcuno non ha nemmeno i quaderni, gli insegnanti si arrabbiano, i ragazzi sono svogliati, lontani dalle parole della didattica. Solo quando Quirico parla della sua esperienza in Siria sembrano accendersi toccando argomenti fino allora taciuti, come la mafia. Con la Dad sarà peggio, nell’aula ci sono solo due ragazzi, parlano di Skynni e di Sfera Ebbasta, ma nel testo «criminale» affiora un po’ di sé stessi.

ECCOCI POI a Aosta, in una regione che immaginiamo opulenta e che invece nel fallimento dei suoi progetti industriali ha visto passare tra il 2010 e il 2019 da 800 a 2400 le persone che si rivolgono la Banco alimentare per la spesa. Chi sono questi poveri? Pensionati, gente che non ce la fa con quanto guadagna. Nel centro della Croce Rossa  di Torino dopo il Covid la situazione è ancora più difficile: ci sono le norme di distanziamento, i volontari che prima rimanevano lì lasciano il pacco del cibo, non c’è più scambio, relazione che è altrettanto importante. Qualcuno protesta, una voce grida alla volontaria che parla con la regista di filmare i bagni. Quando il centro verrà chiuso rimane però una piazza cittadina di ritrovo dove i volontari di Sant’Egidio continuano a portare cibo riaffermando la necessità di una cura che dovrebbe essere una componente fondante della nostra vita sociale.
Piacenza filma senza retorica, si avvicina con pudore, ci rende partecipi rossellinianamente in questa sua «giusta distanza» di una situazione che ci riguarda. Che mette ansia, spaventa, nella quale affiorano i nodi di molti accadimenti – rabbia, rancori, proteste sociali – del presente. Risposte non ce ne sono piuttosto ipotesi. Resta l’immagine di un universo parallelo, di un attivismo sociale che da qualche parte ancora esiste e costruisce relazioni con i diversi territori, che è forse un senso possibile di praticare quella cura che nel discorso politico sembra ormai scomparsa.