In una cripta-discarica, tra lumini, sacchi della spazzatura e lattine riciclate, viene riesumato Pulcinella. Destato dal sonno, si produce in un cunto amaro e incalzante. Su un ritmo misto tra tammorriata e break dance, racconta una storia in versi freestyle. La Campania Felix – ex «terra di lavoro» – oggi è un pozzo di veleni interrati e bruciati, luogo d’arrivo di bastimenti di manodopera da sfruttare e ammazzare, madre matrigna da cui fuggire, dove niente succede e tutto tace, nell’immobilità e nell’indolenza generale. Pulcinella nel 2023 ha una barba lunga e una giacca sdrucita; si muove a scatti e parla in rima, nella sua lingua spuria di dialetto, antichi canti, voci dalla strada. Pulcinella è Damiano Rossi aka Damiano «Capatosta»: 34 anni, rapper, attore e drammaturgo di Casagiove (Caserta), con RAP, Requiem A Pulcinella firma uno degli esperimenti più interessanti del panorama della nuova drammaturgia partenopea degli ultimi anni.

Damiano Rossi «Capatosta»
Vivo in un posto dove ho respirato di tutto. Prima terra dei veleni, poi terra dei fuochi. Come Pulcinella, continuamente veniamo salvati e poi ci avvelenano con qualcos’altro «Il ragazzo sa cosa vuole ma questo è uno spettacolo pericoloso», disse Roberto De Simone, dopo aver visto una primissima versione in forma di studio. Il «requiem», con Ivan Marco Sgroi ai vinili e Tommaso Renzuto Iodice ai vocals, è un’ibridazione tra cultura street dell’hip pop, teatro di «es- tradizione», istallazione artistica. Damiano esce dalla fucina di performer della Scuola Elementare del Teatro di Davide Iodice che ha supervisionato il lavoro dai suoi primi albori. Lo incontriamo dopo la data al Q-Festival a San Giovanni a Teduccio (prossima data Festival Confini Aperti, Teatro Area Nord, Napoli, 18 novembre).

Da dove vieni artisticamente?

Ho iniziato a fare rap nei 2000. Da piccolo avevo dei cugini writers, mi facevano sentire Joe Cassano, Lou X, La Famiglia, Speaker Cenzou. Dopo essere stato bocciato, feci un viaggio in Slovacchia: conobbi un rapper del Lussemburgo e un tedesco che mi diede delle cassette di beat box. All’epoca scrivevo già qualche rima. Quando tornai, con un mio compagno di scuola iniziammo a fare freestyle. Giravamo con una telecamera nei corridoi, nei bagni. Era il primo anno di YouTube. Ho fatto tante jam, andavo alle serate nella Napoli e nella Roma underground. Iniziai a scrivere molto. Mi piaceva il teatro, sognavo di farlo ma non lo praticavo. Avevo un mio modo di fare freestyle, era teatrale rispetto a chi faceva hardcore o qualcosa di metricamente più tecnico. Ho fatto freestyle per strada, davanti a chiunque. Questo saper parlare in rima, farsi capire grazie al rap poi si è trasformato. Ho iniziato a prenderne coscienza al primo anno di Scuola Elementare del Teatro, nel 2013.

Com’è nato «Pulcinella»?

Pensavo a questo personaggio da molto tempo. La maschera che uso – un Pulcinella atipico, più vicino alle rappresentazioni di Tiepolo – l’ho trovata a Venezia da un mascheraio iraniano. Iniziai a giocarci, a farci delle rime libere, improvvisare. Quando alla scuola di teatro ci fu chiesto di portare un sogno nel cassetto, mi presentai con la maschera. Avevo bisogno di creare una cosa tutta mia. Iniziai a vomitare il testo che poi ha preso forma gradualmente, anche grazie alla ricerca e allo studio.

Quali sono i tuoi riferimenti teatrali?

Mi piacciono molto la lingua e la poesia napoletana, soprattutto Ferdinando Russo. Amo Eduardo. Ho studiato la Canzone, a partire dalla tradizione orale dei canti dei briganti – che per me sono i nostri rapper ante litteram – fino alla musica napoletana del Cinquecento, Lo cunto de li cunti di Basile, qualsiasi cosa che fosse inerente alla mia terra: avevo bisogno di vederla in condizioni migliori di come è ora. Le canzoni antiche erano romantiche perché era il territorio a ispirarle. A me invece ha ispirato qualcosa di più crudo.

Perché?

Pulcinella è stato sotterrato dalla munnezza. Viene riesumato e vomita la realtà che vede: l’avvelenamento mentale e ambientale, le persone che non riescono più a reagire, si fanno scivolare tutto addosso. Io vivo in un posto dove ho respirato di tutto. Prima terra dei veleni, poi terra dei fuochi. I nonni raccontano di quando si sentiva l’odore del pane. Adesso senti l’odore della diossina. Già nel rap avevo affrontato queste tematiche. Come Pulcinella, continuamente veniamo salvati e poi ci avvelenano con qualcos’altro. Pulcinella è anche la tradizione. Ognuno la usa e poi le butta merda addosso. Il senso dello spettacolo è che la gente non deve aspettare per esigere il rispetto dei propri diritti. Forse l’ho fatto per farli svegliare da questo torpore, per me è importante portare un messaggio in quello che faccio: non riesco più a vedere la mia terra e i suoi abitanti così.

Come hai portato il rap a teatro?

Le parole, molte delle quali provenienti da ciò che ascolto in strada, mi ribollivano dentro da tempo. Davide Iodice è riuscito a darmi disciplina. Nel freestyle potevo non avere copione, la difficoltà per me è stata darmi una struttura. Per la musica, abbiamo iniziato a campionare alcune basi, come i brani di musica popolare. Poi abbiamo campionato i suoni della latta in scena che proviene dal materiale riciclato con cui costruisco oggetti che poi vendo nei mercatini.

Ti consideri più rapper o teatrante?

Ho difficolta a definirmi. Scrivo, sto in scena, raccolgo munnezza da terra. Faccio ancora freestyle per strada. Così riesco a parlare con tutti e la comunicazione è più diretta. Il teatro è una possibilità di esplorare la mia poetica, capirla, studiare. Diciamo che sono un «rap attore».