Recensire un libro, commentare un brano di un noto cantante e apprezzare la scenografia di un film recentemente uscito in sala. I netizen cinesi trascorrono così la gran parte del tempo sul social media Douban, la piattaforma privata nata nel 2005 dall’idea di Yang Bo.

In poco tempo, Douban ha allargato le sue funzionalità, permettendo la discussione su temi specifici all’interno di gruppi, simili a forum o blog. Il sito web sta gradualmente inasprendo la censura dei contenuti online, in base alle linee del Partito comunista sulla selezione e cancellazione di contenuti ritenuti lesivi della stabilità politica e sociale.

La morsa è divenuta più stretta il 12 aprile: Douban ha chiuso circa 10 gruppi dove erano affrontati i temi legati al «6B4T», un particolare movimento femminista originario della Corea del Sud, perché avrebbero divulgato idee radicali ed estremiste. Il «6B4T» nasce dalla necessità di sviluppare un attivismo autodeterminato e centrato su azioni che esaltano l’identità sessuale e la femminilità in una società patriarcale ed eteronormativa.

Allontanato il sogno del principe azzurro, le femministe del «6B4T» promuovono le loro idee con un acronimo apparentemente incomprensibile. Le negazioni sono rappresentate dalle «6B», che riferiscono al non sposarsi, non avere relazioni sentimentali, non avere figli, non avere rapporti sessuali con uomini, non acquistare prodotti ostili per le donne, e non eludere la collaborazione femminile.

I rifiuti, invece, sono espresse dalle «4T», secondo cui l’attivista non accetta gli standard di bellezza e la conseguente oggettivazione sessuale, l’ossessione per la cultura Otaku (subcultura giapponese del mondo dei manga e anime), il fenomeno degli «idol» musicali, e la religione.

La cancellazione dei gruppi non è passata inosservata soprattutto grazie alla denuncia sui social dell’attivista Zhou Xiaoxuan, volto del movimento #MeToo in Cina e protagonista della prima sentenza per un caso di molestie sessuali, che vede coinvolto un noto presentatore della tv di stato.

Zhou ha espresso il suo sostegno alle «sorelle di Douban», riconoscendo il valore di questo ramo del femminismo contemporaneo. Il ban ha scatenato la frustrazione degli utenti, che si sono mobilitati per rendere virale l’argomento su Weibo, il twitter cinese che nel 2018 ha oscurato l’account del gruppo «Feminist Voices».

Il timore di molti è vedere, nel tempo, la disintegrazione del femminismo, ritenuto pericoloso per la tenuta della stabilità sociale. Da più di un decennio, però, le attiviste trasformano le difficoltà in armi vincenti. Dopo aver conosciuto le pene delle leggi cinesi, le femministe non mobilitano folle né organizzano proteste per evitare una repressione, come accaduto nel 2015 con la detenzione di cinque donne.

La sfida al governo di Pechino si porta avanti online, attraverso discussioni su proposte di legge sulla violenza domestica e sessuale. La cybersfera cinese così diventa l’animato teatro delle numerose istanze sociali, dove esiste un vivo dibattito su diversi temi, anche quelli scomodi.