Il 2 ottobre del 1808 Goethe e Napoleone si incontrarono a Erfurt, in Turingia. Quando Napoleone seppe che Goethe aveva tradotto in tedesco il dramma di Voltaire Maometto, ossia il fanatismo, in cui rappresenta il Profeta dell’Islam come un condottiero senza scrupoli allo scopo di criticare i radicalismi anche cattolici, gli obiettò che quell’opera dipingeva un ritratto indegno di un grande conquistatore, senza capire a sua volta che per il genio tedesco quel lavoro era un’occasione per esplorare lo spazio che si creava tra profeta e poeta. In fondo, per nessuno di questi tre europei Maometto era il fondatore di una religione ma il personaggio, storico o letterario, e la maschera di costume che secoli di mitografie narrative avevano prodotto. Così almeno scrive John V. Tolan nell’incipit teatrale di Faces of Muhammad Western perceptions of the prophet of Islam from the Middle Ages to today, uscito per la prestigiosa Princeton University Press (pp. 326, $ 29,95 / £ 25,00). Questa ennesima sintesi dello studioso affronta l’impresa, sostanzialmente impossibile, di descrivere le molte forme che il Maometto storico e il Maometto leggendario o letterario hanno assunto nel corso dei secoli: un racconto definito «scholarly», cioè specialistico, ma in realtà molto agile e fluido, che salta le testimonianze dei martiri cattolici nella Spagna occupata dalle armate maomettane documentando sùbito la (prevedibile) denigrazione di Maometto ai tempi delle crociate, la fantasia dei poeti che ne fanno una maschera del gran teatro delle battaglie pseudo-carolinge, per proseguire con i protestanti che usano l’Islam come vessillo antipapale o modello riformatore e antimonarchico, sviluppando poi il benevolo Maometto della Francia coloniale e concludendo con l’islamologia recente di Massignon, Basetti Sani e Watt e le vignette che costarono a «Charlie Hebdo» un massacro sanguinoso.

Said e Delacroix
L’operazione è rischiosa e quasi azzardata, perfino per un lavoro di oltre 300 pagine che risistema saggi apparsi a loro volta come articoli di rivista o relazioni di convegno. Per fortuna, Tolan avverte fin da subito che «le idee europee sull’Islam erano tutt’altro che monolitiche e molte erano assai positive». Resta però la sovrapposizione fra idee sull’Islam, idee sul suo fondatore, e ricezione del Corano, che sono tre realtà profondamente distinte, oggetto ognuna di una storia di dimensione e varietà immense. Tolan è ben consapevole che la questione è troppo grossa per tenerla sotto controllo e lo esprime ricordando le critiche di Humberto Garcia all’Orientalismo di Said, incapace di valutare la complessità delle risposte europee: ne è emblema l’acquerello di Delacroix con Maometto seduto in riposo o in meditazione su un gradino, senza che se ne possa vedere il viso; su di lui l’ombra dell’essere angelico, in forma femminile senz’ali, che scende a esporre la rivelazione. Un’immagine «orientalistica», romantica che mantiene l’ambiguità di un personaggio senza volto.
Il volume oscilla fra uno sviluppo diacronico già raccontato altre volte e una tentazione tipologica che risulterebbe più nuova ma meno attraente rispetto alla lettura narrativa che ormai si suppone preferita da tutti i lettori. Si parte dalla preistoria, aggiungendo alla confusione dei soggetti un tassello, quello etnico, che assimila Maometto, Islam e Corano agli arabi. Per san Girolamo, che si basava sulla Cronaca di Eusebio, i «Saraceni» erano Ismaeliti, cioè discendenti di Ismaele, il figlio che nella Bibbia Abramo ebbe con la schiava Agar (da cui anche Agareni). In realtà le vicende di quel popolo interessarono poco all’Occidente, finché non venne a scontrarsi con la Cristianità occidentale: qui in poche righe Tolan fa un salto acrobatico all’epoca della prima crociata, omettendo con calcolata ingenuità l’invasione islamica del Nord-Africa cristiano, da cui la cultura greco-latina venne completamente cancellata, e della Spagna, che venne occupata dall’VIII fino al XV secolo lasciando sopravvivere un cristianesimo residuale come religione di rango inferiore, soggetta a tassazione separata e diritti limitati. Le crociate sono occasione per la scoperta di un idolo d’argento massiccio, che gli occidentali pensavano raffigurasse Maometto, trovato a Gerusalemme, secondo Rodolfo di Caen, nel tempio di Salomone trasformato in spazio sacro al Profeta quale divinità, cosa che l’Islam in realtà non ammise mai se non in frange marginali dei primi tempi. Questa presunta idolatria assimilava gli islamici ai pagani, come vengono raffigurati nell’epica francese: la Chanson d’Antioche, la Conquête de Jérusalem, la Chanson de Roland nella quale i saraceni adorano una triade composta da Maometto, Apollo e il misterioso «Tervagant».
Un carattere più picaresco ha invece il Maometto presentato come «seduttore» (di popoli) nel De casibus di Boccaccio, un ritratto erede di leggende latine qui oscurate, destinato a una larghissima fortuna anche nella versione francese di Laurent de Premierfait: le sgargianti miniature (come quelle del Maestro di Rohan) che corredano alcuni dei manoscritti di quest’opera forniscono l’arsenale iconografico di uno schema narrativo ricorrente fin dal IX secolo: abile mercante educato da un monaco cristiano eretico o dissidente (chiamato Sergio o Bahira), Maometto fa carriera grazie alla ricchezza della vedova Khadija, che poi sposa convincendola di essere la scelta migliore. Il matrimonio incrementa le sue risorse, che impiega per imprese militari di tribù arabe, sostenute da frange ebraiche di Medina, impressionate da rivelazioni che lui sosteneva di aver ricevuto dall’arcangelo Gabriele durante episodi di estasi dovuti in realtà all’epilessia.

Fra le corna di una vacca
Queste rivelazioni assumono la forma di un nuovo codice di leggi, apparso al popolo fra le corna di una vacca (o toro) in realtà addomesticata e confermato dal miracolo di miele e latte che si simulano scoperti grazie a un’ispirazione divina. La legge, che recupera elementi ebraici e cristiani, ne supera i vincoli morali e consente una sfrenata libertà sessuale, autorizzando poliginia e poliandria (ma anche omosessualità e incesto) fino a dieci partner a testa e si dimostra provvidenziale al momento di dover rimpiazzare le perdite di maschi causate da una sconfitta coi Persiani (eco lontana della disfatta di Uhud, 625). Questa favola grottesca, costruita su deformazioni progressive di elementi del Corano e soprattutto dell’Apocalisse di Bahira, una leggenda araba ampiamente diffusa nel mondo bizantino, divenne il mito di Maometto come astuto, carismatico e spesso simpatico catalizzatore dell’unificazione ed espansione militare del popolo arabo sull’onda di una deformazione nicolaita del Cristianesimo da cui deriverebbe il nome de La Mecca (da mechìa, «adulterio», in greco).
Nello stesso periodo (XII secolo) in cui queste storielle bizantine cercano di neutralizzare Maometto prima di confutarne le idee, religiosi «moderati» come il cluniacense Pietro di Cluny, detto il Venerabile, tentano di sostenere che l’Islam va combattuto con le armi della discussione teologica anziché dello scontro militare, e allestiscono il celebre laboratorio di traduzioni di Toledo dove viene approntata la prima traduzione latina del Corano. Altri, come l’ebreo convertito Pietro Alfonsi, attaccano l’Islam sul piano polemico ma con piena cognizione di causa grazie alla conoscenza diretta dell’arabo e dunque del Corano e degli Hadith, detti e narrazioni tradizionali sul Profeta e sul suo insegnamento. Ma questa linea restò appannaggio minoritario di intellettuali e teologi, mentre sul piano della fantasia narrativa fu il Maometto capo-popolo a imporsi in poemi epici, opere teatrali, pseudo-biografie, novelle per marionette, cantari popolari.
L’indagine di Tolan ci guida magistralmente negli usi più politici e meno familiari della storia del Maometto europeo: la sua origine cristiana venne enfatizzata infatti dopo la Reconquista del 1492 per riammettere nella società spagnola, con pratiche sincretistiche, i musulmani convertiti che molti cattolici vedevano con sospetto. Ugualmente l’affermazione della purezza di Maria che Tolan attribuisce agli Hadith, ma che si legge invece già nel Corano, fu usata nei dibattiti sull’Immacolata Concezione e perfino nelle opere figurative, come quelle di Francesco Signorelli e Durante Nobili. In generale, le posizioni dell’Islam sui personaggi biblici o contro la Trinità vengono addotte in Europa come argomento a favore di una o dell’altra fazione durante le guerre «di religione»: il risultato è una decisa relativizzazione dell’alterità islamica, sulla linea inaugurata già da Giovanni Damasceno, coevo di Maometto, che aveva inserito l’islam fra le eresie cristiane, sulla base dell’autodefinizione del Corano come completamento della Legge biblica ed evangelica. Perfino Lutero dichiarò di preferire i Turchi al Papa, in confronto al quale Maometto appare come «un santo», mentre Calvino condanna Maometto per lo stesso peccato del Papa, cioè fraintendimento delle Scritture.
Sull’altro versante, i cattolici come Thomas More o Guillaume Postel accusano i protestanti, i cui pastori possono sposarsi, di commettere lo stesso peccato attribuito a Maometto per la sua poligamia. In Inghilterra il violento attacco ai deisti ricorre spesso a paragoni con l’Islam, contribuendo a produrre argomenti per l’alleanza che Elisabetta propose all’Impero Ottomano nel 1580 contro i «papisti» spagnoli e che ebbe lunghe conseguenze sulla storia mondiale. Perfino i repubblicani radicali si appellarono alle prime comunità musulmane nel loro contrasto alla monarchia britannica e nel 1549 Oliver Cromwell venne paragonato a Maometto per le sue ambizioni politiche parlamentariste e per il suo liberalismo, analogo a quello mostrato dal Profeta nell’affrancare la schiava Zeidi: si recuperava così un tratto egualitario emerso nei primi poemetti latini su Maometto come gli Otia de Machomete di Gualtiero di Compiègne (XII secolo), nel quale il Profeta sosteneva su basi bibliche l’equipollenza delle classi sociali perché Khadija scegliesse come marito lui, di famiglia mercantile, al posto dei pretendenti aristocratici. Ruolo analogo fu giocato da questo «volto» del Profeta nella Francia illuminista in funzione anticattolica, ma con metodo diverso, basato non sul contrasto con figure positive ma sull’associazione de I tre impostori (Mosè, Cristo e Maometto) in un’unica condanna, argomentata da un anonimo trattato del 1719. Questo clima produsse la biografia non polemica di Maometto da parte di Henri de Boulainvilliers, che ne fece di nuovo un eroe antipapista, e il panegirico di Sale che lo esaltò come grande legislatore e come prova dell’idea, basata su Machiavelli, che solo i profeti armati non falliscono.
Si arriva così a Voltaire, che nella sua pièce teatrale rappresenta Maometto come impostore violento ma più tardi, dopo la lettura di Sale e delle nuove versioni del Corano, lo rivaluta come innovatore sociale e difensore del suo popolo contro Persiani e Bizantini, in una prospettiva che nell’Essai sur le moeurs ne enfatizza, pur all’interno di una prospettiva critica, le doti di oratore affascinante, politico libertario e stratega di successo.
Del dramma voltairiano discutevano dunque Goethe e quel Napoleone che, dopo le imprese egiziane, Victor Hugo aveva paragonato proprio a Maometto e dopo la vittoria di Ulm lo stesso Goethe aveva chiamato «Maometto del Mondo». Ma quello che interessava lo scrittore tedesco nel testo di Voltaire era piuttosto l’ispirato mediatore del Corano come libro poetico e come stimolo alla conoscenza del tesoro letterario d’Oriente, che Goethe sperimentò nel magico (e a sua volta discusso) West-östlicher Diwan, dove, secondo Tolan, attraverso la scelta del titolo Hegira per indicare la propria nuova ispirazione, il poeta si identifica con Maometto.
Al di là di ogni intenzione, in questa moltiplicazione di specchi deformanti sembra inevitabile la perpetuazione di un reimpiego del personaggio come alter ego di fenomeni estranei al Maometto storico. La cui verità è forse nella prima biografia di Ibn Ishaq. Perduta (salvo il rifacimento di Ibn Isham). Come il Maometto di Carlyle, «a silent great soul».