Un apologo tibetano dice: vidi da lontano avvicinarsi una figura indistinta; prima pensai che si trattasse di una bestia feroce ma, quando fu più vicina, intravidi la sagoma di un essere umano, poi infine capii che era mio fratello. La manifestazione delle etnie Rom e Sinti che si è svolta ieri a Bologna, vuole incarnare nelle sue forme attuali questo tema dell’alterità, cioè della necessità, per un modello di civilizzazione come quello che ci impone la globalizzazione, di riconoscere come costitutivo della nostra identità personale e collettiva sia ciò che differenzia sia ciò che unisce tra loro le diversità culturali, pena una montante barbarie che, alla fine, non risparmierà nessuno e nessuna diversità, considerandole tutte come antitetiche le une alle altre. E da chi può scaturire con maggior chiarezza questo messaggio, questa messa in guardia contro le derive dei razzismi e delle xenofobie, se non da chi le vive ogni giorno, da chi le subisce nella carne viva della propria comunità costretta negli angusti spazi degradati, da chi osserva e denuncia con crescente preoccupazione i pregiudizi a diventare presupposti per le decisioni politiche?

Una marcia, più che una manifestazione, quella di Bologna, che ha voluto partire dalla periferia del capoluogo emiliano per arrivare nel centro della città a testimoniare, anche plasticamente, il lungo percorso di avvicinamento a quei diritti universali sempre proclamati in capo a tutti ma di fatto negati alla maggioranza dei Rom e dei Sinti. E però anche la scelta del luogo di ritrovo per gli interventi finali ha mostrato la prospettiva obliqua, lo sguardo nomade, al quale questa cultura ci propone di accostarci. La piazza scelta, infatti, è quella immediatamente vicina alla stazione ferroviaria, a testimoniare l’antica vicinanza col viaggio, la consuetudine ad appartenere solo al vento, ad un corpo storicamente erratico in una società che, pur nella sua supposta liquidità, ha ancora terribili problemi di miscibilità con ciò che resta fluido, con le sue componenti essenzialmente e non solo forzatamente mobili.

Questo scollamento tra ciò che è fisso e ciò che da sempre si rivendica in transito, riproduce nel microcosmo della situazione dei Rom e dei Sinti in Italia quella stessa grande contraddizione tra popoli nomadi e popoli stanziali che rappresenta una delle cifre con le quali si è affermata la modernità coloniale. La vittoria sul nomadismo, infatti, emblematizza la vittoria di chi può e deve controllare, verso chi sfugge alle frontiere tracciate dai poteri coloniali, alle divisioni forzose operate in nome degli interessi economici, la subalternità ontologica di chi rifiuta esistenzialmente quel «sorvegliare e punire» che già alla fine dell’800 fondava i pilastri dell’ordine economico attuale. Eppure è proprio nella rima tra nomadismo e stanzialità che nasce il fiore prezioso dell’alterità, il tempo dello scambio, della possibilità di uno sguardo reciproco che diventa così riguardo, rispetto.

Quando alla fine, dai gradini della Porta di Piazza XX settembre, la data della nascita della nazione italiana, si è cantato l’inno di Mameli, sembrava che aleggiasse lo spirito, al tempo stesso di amore verso la propria appartenenza nazionale e di sottile ironia creativa verso una istituzione irrigidita nella sua rappresentazione ottocentesca, che accompagnò Jimi Hendrix durante l’esibizione dell’inno nazionale americano a Woodstock.