È maschio, ma usa un nome femminile, vive a Palermo, ma non si fa vedere tanto in giro, fa musica, ma parla come un filosofo. Gioele Valenti, in arte Herself (detto anche JuJu) si presenta in scena con chitarra acustica, tamburello da piede e un effetto che gli trasforma un po’ la voce. E strega il pubblico con ballate dolci seppure oblique, castelli di sabbia immaginari che si sgretolano un attimo prima di diventare reali. Il nuovo disco Rigel Playground (Urtovox), è dedicato alla stella più luminosa della costellazione di Orione, e racconta sette piccole storie di folk apocalittico su strani incantesimi, su realtà e follia, all’ombra di una redenzione che forse non arriverà mai – spiega Gioiele – . Ma che, intanto, canticchiamo allegramente. «Herself è un tributo alla parte femminile, che è la migliore, dell’intero universo. Viene dalle mie letture di archeologia occulta. E dai libri di Kolosimo, Von Dniken, Sitchin e Biglino, autori che mi hanno dato qualche diottria in più da utilizzare nella lettura della realtà».

PASSATO da svariate formazioni, dall’hard rock all’hard core, dal post punk al pre-war folk, è proprio in questi piccoli ritratti surreali che la sua cifra stilistica trova compiutezza: «Le mie canzoni parlano dei meccanismi per cui i conflitti insorgono, relegati in una costante opposizione binaria, ci perdiamo il meglio. L’essere umano è un alieno che ha un grande potenziale. Radicato nel terreno, usa il nutrimento del mondo e si sporca. Il distico produci-consuma-crepa è l’invenzione tardo capitalista per fottere l’individuo. L’individuo ha in potenza il volo».

Gioele Valenti suona come un menestrello acustico sotto lsd, ma parla come un vecchio saggio, che nella sua Palermo fa vita ritirata e non partecipa alla “new wave” in scena oggi: «Ho odiato questa città. Ora vedi migliaia di turisti, il centro chiuso, la bellezza affiorare. Ma da ragazzo Palermo ha significato la morte cerebrale. Potevi solo fare le valigie. Ora riesco a scorgervi delle meraviglie che allora non potevo vedere. Ma questa facciata di multiculturalismo accogliente che l’amministrazione non fa che sbattere in faccia è, a mio modo di vedere, un fake. È la nuova cultura delle élite, dei nuovi, a volte nuovissimi, ricchi. Non dico che la città non abbia fatto qualche passo avanti, ma le radici affondano ancora nelle bieche attitudini dei padri. Basta andare in un ufficio postale, per accorgersene. Ma, tutto sommato, quando torno a Palermo, me la godo».

QUANDO, e quando canta, Gioele si schiude a un mondo fantastico fatto di immagini iridescenti e melodie dolcissime, un tappeto sonoro di chitarre appena pizzicate, organetti ovattati, bassi morbidi e rotondi che rimandano a un tempo che fu. Con tale armamentario poetico ha stregato anche i Mercury Rev, principi della neo-psichedelia americana, che l’hanno chiamato ad aprire i loro concerti italiani: «Mi hanno chiesto molto delle persone, del carattere e dei costumi, della scena musicale italiana e della Sicilia. Della musica italiana conoscono i classici, quelli che noi definiamo stereotipi, ma che per loro hanno un certo valore intrinseco».

MA NON SOLO hanno diviso furgone e palchi: Jonathan Donahue ha impreziosito forse l’episodio più bello del disco, The beast of love. «Testo e liriche sono mie. Lui si è limitato, da impareggiabile poeta quale lui è, a dare il suo contributo vocale, accelerando su particolari crinali che per qualche motivo entrambi conosciamo. La sua voce è una benedizione. “Beautiful song, Gioele, let’s do it”, e così è stato». You’re under a spell, riecheggia la voce leggiadra dell’americano, mentre il palermitano lo osserva e sorride, con i suoi riccioli d’argento che provengono da chissà quali spazi siderali.