«Era un segreto alla luce del sole, un’ipocrisia e anche il modo migliore per assicurarsi i talenti migliori pagandoli una miseria. Detestavo sentirmi parte di quel sistema». Così Kirk Douglas, nella sua autobiografia I Am Spartacus: Making a Film and Breaking the Black List, ricordava, come, in qualità non solo di protagonista ma anche di produttore del film di Kubrick, dopo aver affidato il copione a Dalton Trumbo decise di infrangere l’usanza dello pseudonimo, e di usare nei credits il vero nome del grande sceneggiatore hollywoodiano finito sulle liste di McCarthy, perché accusato di simpatie comuniste. Il film, distribuito dalla Universal, fu un successo enorme e il gesto di Douglas contribuì alla fine dell’abitudine di nascondere gli autori blacklisted dietro a falsi nomi.

ATTORE, produttore indipendente, attivista, scrittore, intellettuale raffinato, fondatore di un teatro, e star di una taglia «come ormai non le fanno più» Kirk Douglas è morto mercoledì, nella sua casa di Beverly Hills. Aveva centotré anni – e la forza con cui è rimasto attivo fino a poco tempo fa (il suo solo show autobiografico, Before I Forget, è del 2009; l’ultimo libro – una raccolta di lettere d’amore tra lui e sua moglie Anne – del 2015) ci aveva probabilmente convinti che sarebbe stato eterno.

Vincent Van Gogh (in Brama di vivere di Vincente Minnelli, 1956), lo schiavo ribelle Spartaco, Ulisse (nell’omonimo film di Camerini), il generale Patton (Is Paris Burning? 1966), Doc Holliday (Sfida all’O.K. Corral, di John Sturges, del 1957) sono alcuni dei personaggi storici che ha incarnato in una carriera che ha attraversato più volte tutti i generi, e in cui ha interpretato due dei film più belli e veri mai realizzati su quell’industria che amava moltissimo, Il bruto e la bella e Due settimane in un’altra città, entrambi capolavori di Minnelli, uno degli autori che meglio hanno saputo usare il fascino spigoloso, complesso di Douglas, la sua fisicità felina e il suo magnetismo lievemente minaccioso.

«NON LO NASCONDO, sono sempre stato attirato da personaggi che hanno un lato truffaldino. Non trovo la virtù fotogenica», aveva dichiarato l’attore in un’intervista del 1984 rilasciata al «New York Times». Già notevole al suo debutto, nella grande stagione del noir hollywoodiano anni quaranta, in Lo strano amore di Marta Ivers (1946), con Barbara Stanwick, seguito dal magnifico Le catene della colpa di Tourneur (1947) e da Le vie della città (1948), Douglas ricevette la prima (di tre) nomination all’Oscar per il ruolo del pugile assestato di gloria in Champion (1949), un film che i suoi agenti gli avevano sconsigliato di accettare, in cui ebbe modo di sfoggiare la disciplina con cui si avvicinava ai personaggi e il suo meticoloso modo di prepararli, allenandosi a lungo con un pugile professionista.

Per interpretare Doc Holliday avrebbe imparato a sfoderare la pistola a velocità supersonica; per Young Man With a Horn, di Michael Curtiz, studiò la tromba con Harry James; del ruolo di Van Gogh disse che lo aveva quasi portato al suicidio. «Mi sentii sull’orlo del baratro, dentro alla pelle di Van Gogh. Non solo gli assomigliavo, ma avevo la stessa età di quando lui si era ucciso». Per quella ragione, disse, non volle riguardare il film per parecchi anni. Tra i suoi personaggi indelebili, lo spietato giornalista Chuck Tatum, in L’asso nella manica di Billy Wilder. Tra i western più belli Il grande cielo, di Howard Hawks. Ed era un western (piccolo e prodotto indipendentemente) anche uno dei suoi film favoriti, e un’altra collaborazione, con Trumbo, Solo sotto le stelle, in cui apparve al fianco di Gena Rowlands.

NATO Issur Danielovich, unico maschio di sette figli, in una famiglia povera di ebrei russi, in una cittadina a nord dello stato di New York (il titolo del suo primo libro autobiografico è The Ragman’s Son, Il figlio dello straccivendolo), Douglas fu costretto a iniziare a lavorare giovanissimo. Di quegli anni ricordò spesso la moltitudine di impieghi diversi e l’antisemitismo, patito da sé e dalla famiglia. «Scrivendo questo libro, mi sono accorto di avere in me parecchia rabbia. Sono arrabbiato per cose successe moltissimi anni fa. E credo che quella rabbia abbia alimentato e reso possibile gran parte di quello che sono riuscito a diventare», avrebbe dichiarato a Johnny Carson, al Tonight Show, nel 1988, durante la promozione di The Ragman’s Son.
Grazie a una borsa di studio, riuscì ad entrare alla St. Lawrence University, di Canton, dove era anche un campione di wrestling. Le prime particine furono quelle su un palcoscenico degli Adirondacks, la Tamarack Playhouse. Nel 1941, l’anno del suo debutto a Brodway, aveva già adottato il nome con cui sarebbe diventato famoso.

LA CREAZIONE di una sua casa di produzione per poter controllare i propri progetti (realtà non comunissima per un attore nella Hollywood di quegli anni), la Bryna Productions, è del 1955. Tra i primi film che produrrà Orizzonti di gloria (1957), di cui affidò la regia al giovane e poco conosciuto Stanley Kubrick, che lo avrebbe diretto anche in Spartacus. Arruolato in Marina durante la seconda guerra mondiale, Douglas è stato sposato due volte, (la prima volta con Diana Dill, nel 1943; la seconda con Anne Buydens, nel 1954). Da quei matrimoni sono nati quattro figli. Michael, il maggiore, è quello la cui carriera di attore, produttore e attivista più ricorda quella di papà.