Frequento l’Orto botanico di Palermo da svariati anni. Ci torno spesso semplicemente per farmi compagnia con le note di una sinfonia arborea che inizia ad essermi famigliare come la casa di un amico. L’attuale curatore dell’orto, Manlio Speciale, e la studiosa Alessandra Viola, hanno scritto in Andare per orti botanici: «Gli orti botanici rappresentano patrimoni culturali e ambientali da tutelare e conservare monumenti viventi, luoghi multiculturali di scambio di informazioni e anche sedi di conservazione della flora»; la principale attività «rimane dunque lo studio della biodiversità vegetale, sempre più connesso alle urgenti problematiche ecologiche correlate alle trasformazioni del clima, all’effetto serra, alla deforestazione, all’inquinamento. Non si tratta più come un tempo soltanto di esibire le specie più belle, strane o esotiche: la salvaguardia della biodiversità è ormai un imperativo morale dalle evidenti connotazioni scientifiche, etiche e culturali».

QUANDO CAMMINIAMO SVAGATI TRA I VIALI di un giardino botanico non si tratta soltanto di bellezza, di armonia, di dialoghi vegetali e floreali, ma anche di rispetto per il pianeta, di amore, di sapere, di ricerca, di quel tentate di prendersi cura di tutto quel che vive là fuori, oltre i confini delle nostre umanità. Mi piace lasciarmi trasportare ogni volta al «portale», questi immensi ficus sulla parte destra dell’ingresso. Un agglomerato di ficus nel quale potersi perdere all’interno, con tutte queste proiezioni verticali che ti circondano e ti accolgono. Guardando l’aggressione al cielo che stanno lentamente progredendo da oltre un secolo capisci il nome che portavano quando il direttore del tempo li condusse qui, probabilmente da un vivaio francese: ficus nervosa. Alle loro spalle si apre un sentiero che conduce alla prima serra, aperta, transitando accanto alle due piante più annose, due melaleuche. Da qui ci si può concedere alle ombre dei viali boscosi, ombriferi, costellati di yucca, ibisco, palme, querce, ficus, sangue di drago. A terra, nonostante molte siano le specie sempreverdi, una certa legione di foglie abbandonate, e fruttescenze di varia forgia e grado di deperimento. Una manciata sarebbe sufficiente per imbastire i discorsi di una conferenza di un paio d’ore.

L’ORTO BOTANICO DI PALERMO OSPITA diverse meraviglie botaniche, ma se esiste una pianta protagonista, è il grande ficus che ne occupa il cuore, e rivederlo anche questa volta mi sorprende ancora. L’ho fotografato, l’ho misurato, l’ho ammirato per ore, nel corso di questi ultimi due decenni. Ma prima di arrivare a lui ripercorro il viale centrale che dal colonnato del Gymnasium si innesta accanto a grandi ficus, di cui uno particolarmente noto poiché le radici hanno inglobato un grande vaso e se lo stanno portando a spasso, segno della veemenza della specie. Non è l’unico ficus prepotente che vive a Palermo, tantomeno in Italia: altri due ficus secolari si stanno avvicinando minacciosamente ad esempio all’edificio di Villa Trabia alle Terre Rosse e, in geografie più prossime a chi scrive, nei giardini di Sanremo, in Liguria, un altro ficus ha già iniziato a sollevare i gradini della scalinata accanto a Villa Ormond.

PUNTO TERMINALE DEL VIALE E’ IL NINFEO circolare, l’Aquarium, con un giro esterno di aloe, alcune in fiore a novembre. L’Aquarium è cinto per metà della sua circonferenza da un bambuseto che oramai ha composto il suolo di un’unica vasta radice. Il fronte dei bambù sembra ricoperto da centinaia di mani verdi, mentre al di sopra spicca una Araucaria columnaris, o Pino di Cook, uno degli alberi più alti dell’orto. Al minimo irrobustirsi del vento le chiome dei bambù oscillano e i lunghi legni schioccano come fruste. Mi ha sempre affascinato l’intensità di colore dei segmenti in cui si «montano» i Dendrocalamus giganteus e i Bambusa vulgaris, le incisioni di generazioni di studenti transitate, le promesse o le minacce d’amore eterno, i cuori intagliati. Ed eccomi di nuovo di fronte al ficus patriarca, quando scrissi Il bosco di Palermo lo ribattezzai la Sagrata Familia di Palermo. Riconosco le tre parti che lo connotano: una galleria dritta che lo preannuncia, con una serie di colonne in fila indiana che accompagnano al grande nucleo centrale, l’albero che negli anni Quaranta del XIX secolo era stato messo a dimora, e poi una parte finale, una «coda» per così dire, ma anche questa è ovviamente una visione tutta mia e tutta umana, poiché la coda potrebbe essere benissimo quella che insisto a chiamare la testa, e viceversa. Un sentiero lo circonda a ogiva. Attorno alla parte centrale, quella più alta, la «lenta esplosione di un seme» come l’avrebbe chiamata Bruno Munari, si avvistano radici tabulari alte diverse spanne, ma ovviamente è la proiezione verso l’alto, tutta questa concentrazione vivente dall’aspetto scultoreo e roccioso.

IMMANCABILE IL CICALIO GIGOLANTE e isterico del richiamo dei pappagallini verdi che oramai si sono ottimamente adattati al clima cittadino e s’involano nei cieli dei numerosi giardini palermitani. Il vento si alza nuovamente e alcuni frutti saltabeccano anche sulla mia fronte. Ogni volta che mi ci perdo dentro noto qualche innesto o forma che non ricordavo di aver osservato, comunque accoglie chiunque venga qui in visita col suo silenzio preistorico. La sua chioma accarezza quella di un pino monumentale che al suo cospetto quasi scompare, ma che sarebbe la gioia di qualsiasi altri giardini in giro per il paesaggio italiano.

DA QUI RAGGIUNGO IL CELEBRE VIALE costellato di una cinquantina di alberi bottiglia o Ceiba speciosa, essenze ovviamente esotiche che col passare del tempo ingrossano il tronco nella parte inferiore, assumendo la forma di una grossa pera o meglio, di una bottiglia. Sono in fiore e posso notare la diversità di colore dei petali: alcuni sono rosa e gialli, altri rosa e bianchi. Questa varianza è dovuta ad antiche ibridazioni nel suo ambiente con altre specie che sono rimaste impresse nel suo dna. Poso la mano al tronco di uno dei più cresciuti, e anche questa volta le dita si pungono al contatto con le escrescenze legnose che sembrano patelle di mare, durissime e spinescenti. La specie è nota anche come falso cotone, poiché i frutti contengono materiale lanuginoso che può essere filato.