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Il fascino indiscreto di Maciste. Senza voce

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Venezia 71 Il film - restaurato dall'Immagine Ritrovata di Bologna, diretto da Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi nel 1916, fa parte di una serie che era uno spin off del celebre Cabiria

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 28 agosto 2014

Maciste alpino (1916) è il film perfetto per la «pre-apertura» quest’anno: ironicamente perché è muto ed è stato presentato in quella sala Darsena che è appena stata dotata di iper-tecnologia sonora; perché ben rappresenta (in questo caso senza ironia) il cinema muto italiano nella sua fase di massimo splendore e perché funge da «doveroso richiamo» alle celebrazioni della Grande Guerra, che ormai imperversano ovunque.

Il film, diretto da Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi, fa parte di una serie che era uno spin off del celebre Cabiria, interpretata dal portuale genovese Bartolomeo Pagano, che nel grande affresco storico diretto da Pastrone aveva incarnato un forzuto schiavo numida (quindi di colore, ma fu sbiancato in fretta, per trasformarlo in un eroe del popolo – un uomo d’azione muscolare, che prefigura Mussolini, al quale peraltro assomigliava pure.)

Maciste alpino appartiene a quella produzione di propaganda che molte cinematografie avviano durante la prima guerra mondiale – il primo conflitto di massa che produsse (oltre alla confezione industriale dell’abbigliamento, inaugurata dalle divise militari) un salto di qualità negli studi sociali, dalla psicanalisi alle arti del consenso.

Con la sua forza Maciste sbaraglia plotoni austriaci, scaraventa i nemici dalle finestre o dalle cime dei monti, li impacchetta come salami e li lancia come sacchi di patate; ha l’astuzia del contadino e il coraggio di un autentico eroe, capace di liberare un intero villaggio fatto prigioniero dai crucchi, salvare la donzella in pericolo e soprattutto guidare gli alpini a conquistare le bianche vette per piantarvi il tricolore. Un po’ come l’eroe di un film di guerra americano, Maciste sembra poter vincere la guerra da solo e invece, a contatto con gli alpini, ne assorbe lo spirito di corpo, di appartenenza al gruppo.

La fotografia del film (di Tomatis, Franzoni e Battaglietti) e i notevolissimi effetti speciali di Segundo de Chomon sono una dimostrazione della qualità visiva che era una caratteristica, ora dimenticata, del cinema muto italiano, rifacendosi esplicitamente ai documentari di guerra sulle Alpi del grande cine-fotografo Luca Comerio. Davvero spettacolari le sequenze in cui gli alpini risalgono con le corde su picchi innevati, o si calano su una fune tra una montagna e l’altra in campi lunghi mozzafiato che lasciavano poco spazio agli effetti ottici.

Restaurato dall’Immagine Ritrovata di Bologna, Maciste alpino ha inaugurato anche un nuovo concorso della Mostra dedicato al cinema restaurato, un’originale retrospettiva che ha come giuria gli studenti di cinema delle università italiane e che premia però non i restauri in sé, ma il migliore tra i film restaurati, rimettendo in gioco ventidue titoli, provenienti dai paesi più diversi, alcuni muti ma anche degli anni Ottanta: come a dire che la storia del cinema non ha date né confini, e ci appartiene al punto che possiamo riscriverla assegnandole persino dei premi.

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