Se si dovesse fare il bilancio di una bella porzione di vita, diciamo settantacinque anni, i cultori dei numeri metterebbero per lui in fila come soldatini allineati e coperti i seguenti dati, per fortuna in larga parte sfuggenti alle tassonomie precise e inderogabili: sedici tra dischi in vinile e cd (questi ultimi ritenuti dal protagonista di queste note «figli minori» di una stagione in cui i dischi erano invece grandi e i solchi si consumavano), quattro film realizzati da autore, tanti altri come aiuto regista. Poi, una serie sterminata di documentari e prese dirette sulla realtà di un’Italia difficile da capire, ma che una volta intercettata resta lì, testimonianza, come si suol dire, «a futura memoria» di chi ha la memoria corta: ad esempio il documentario (Genova. Per noi) sulla macelleria cilena dei dimostranti no global nell’infausto 2001, era finiana e berlusconiana in cui contava l’apparenza di plastica, e restò sui muri della scuola Diaz il sangue vero dei ragazzi.

IL BILANCIO dei settantacinque anni di vita lo fa con un disco Paolo Pietrangeli, rovesciando la melassa sentimentalistica che alberga quasi sempre in questo tipo di operazioni. Che «osa» intitolare il suo disco di riassunto (esistenziale, politico, storico, artistico, aggiungete la dizione voluta, ad esercizio ultimato): Amore amore amore, amore un c…. (Bravo Records, Warner) con il vezzo di lasciare i puntini per l’eplicita citazione a chi oggi di parole scatologiche al vento in nome del denaro unico orizzonte si fa vanto.
Qui no, c’è un pudore che è in scintillante danza acrobatica con l’ironia, il sarcasmo, l’occhio a ciglio asciutto, tutto sostanza sui fatti che succedono in questo Stivale che fatica a ritrovare la dignità della lotta e della coscienza. Torna Paolo Pietrangeli, e torna con un disco in vinile perché, dice lui, «ho iniziato con il vinile, e concludo con un vinile». E al diavolo sia le miniature gelide dei cd, sia, ancor peggio, la vacuità delle vacuità della musica liquida digitale, che non si vede, non si tocca con le mani, e non lascerà traccia nella memoria di nessuno.

TREDICI BRANI con tre inediti che raccontano una mutazione non solo storica, ma perfino antropologica del paesaggio culturale e subculturale italiano, esercizio di attenzione cominciato da un ragazzo figlio di un regista attento ai fatti che a poco più di vent’anni si trovò tra le mani una chitarra e un foglio per buttare giù dei testi, e quei testi si intitolarono Contessa, Rossini, Valle Giulia. Una fetta sostanziosa della ipercalorica torta politica del ’68 in Italia, e oltre. A proposito: Contessa c’è anche qui, naturalmente, la trovate come ghost track, come a dire: i fantasmi ritornano, basta saper tendere l’orecchio, e sono più vivi di noi morti di adesso. Ma occhio; non aspettatevi filologia militante. Saranno sorprese.

POI C’È IL CONTROCANTO a se stesso: perché chi si è avviato nell’ottavo decennio della propria esistenza ha ben diritto a tirare qualche conclusione, ed ecco allora tra un brano e l’altro aneddoti sulla propria storia, su un padre regista importante e forse anche un po’ ingombrante, su quando si è giovani e forti, e un giorno scopri che non lo sei più, anche se rimangono tutti i legittimi motivi per incazzarsi. C’è una casa dove passavano Ennio Flaiano («Un antipatico, tirava fuori battute orrende») , Federico Zeri, che gli insegna il gusto delle rime surreali e i calembour con le parole che finiranno nelle canzoni, e Pasolini, «scorbutico e affascinante», insomma le figure come dice lui «spina dorsale del cinema» a casa Pietrangeli. In un altro di questi siparietti Pietrangeli dice, sincero al cubo su se stesso: «io faccio fatica a ricordarmi gli anni e gli avvenimenti. Mi ricordo le facce, le persone. Allora le canzoni mi aiutano, mi aiutano a fermare e fissare gli eventi».
Li ha fissati davvero gli eventi, lo «smemorato» Pietrangeli, nelle sue canzoni intonate con la vociona gonfia di armonici che qui trovate e ri-trovate. Lavorando sul rovescio dell’arazzo della storia quotidiana, giocando al rilancio dell’intelligenza che non rinnega il necessario involucro emotivo delle cose. E lui, il vecchio ragazzo del ’68 che odia il digitale, si permette anche quella su se stesso: un codice da inquadrare col telefonino, nel disco, che dà accesso a un memorabile concerto ai Parioli del ’95. Dici, «sembra ieri». No, sembra domani.