La nascita della «nazione americana» riscritta attraverso una rivolta di schiavi della Virginia e la rovinosa debacle delle ambizioni elettorali di un promettente ex-deputato newyorkese: sull’onda di due temi di grande attualità politica (il dibattito sulla diversità a Hollywood e le primarie presidenziali), The Birth of a Nation di Nate Parker e Weiner, di Josh Kriegman e Elyse Steinberg vincono i premi principali del Sundance Film Festival. Tra la dimensione militante/pulp/televisiva del biopic sullo schiavo/profeta Nat Turner (acquistato per la cifra record qui al festival di 17.5 milioni di dollari) e il verità un po’ scialbo, girato dietro alle quinte della campagna da sindaco di Anthony Weiner, grottescamente affondata in un deja vu dei messaggini erotici che avevano già troncato la sua scalata al Congresso, quello del 2016 è stato un festival più segnato dai ritorni celebri (Solondz, Reichardt, Stillman, Lonergan, Lee, Smith….) e da film «a tema», che dalla tensione verso il nuovo cinema. Nonostante gli ampi spazi che la sezione «sperimentale» New Frontier (al decimo anniversario) ha dedicato alla Virtual Reality, la vetrina di «eventi speciali» sulle anticipazioni tv, e alcuni titoli notevoli nella sezione Next, i film visti quest’anno erano per la maggior parte piuttosto convenzionali. Anche quando basati su una premessa «ose», come Swiss Army Man, di Daniel Scheinert e Daniel Kwan (premio per la miglior regia), in cui il cadavere flatulente di Daniel Radcliff, multiusi come un coltellino svizzero, viene usato per curare la crisi esistenziale dell’emulo di Robinson Crusoe Paul Dano.

Ben più interessante, e inafferrabile, del corpo puzzolente dell’ex Harry Potter, aleggiava sul festival il fantasma di Christine Chubbuck, telegiornalista di Sarasota, Florida, che, nel 1974 inscenò il primo suicidio in diretta della tv made in Usa. Musa ispiratrice di Network, il capolavoro preveggente di Sidney Lumet, scritto da Paddy Chayefsky, Chubbuck era il soggetto di due film presenti al festival. Il primo, Christine (nel concorso fiction), diretto dal cofondatore della newyorkese Borderline Films (la casa indie dietro a James White e Martha Marcy May Marlene), Antonio Campos, è ambientato nelle ultime fasi della vita e della carriera di Chubbuck, ambiziosa, iperseria, cronista delle non-news di Sarasota e dintorni, che sognava una promozione in Maryland (la periferia del Watergate, contro il festival degli agrumi …), pativa il sensazionalismo verso cui la spingeva il suo boss, ma ancor di più la depressione che l’ha consumata e spinta – sola, vergine, ventinovenne – a spararsi un colpo in testa davanti agli spettatori del Sunshine State – un mese prima delle dimissioni di Richard Nixon e dopo aver chiesto al cameraman di registrare quella puntata del Tg. Come già nei suoi due lavori precedenti, Afterschool e Simon Killer (entrambi visti a Cannes), Campos lavora prevalentemente sulla patologia, il suo film stretto sull’interpretazione intensa di Rebecca Hall, altissima e filiforme come Chubbuck, e qui altrettanto spigolosa, la sua sofferenza repressa interrotta dagli scoppi d’ira con cui, come un cane arrabbiato, teneva a distanza anche chi le voleva bene, e cercava di «aiutarla».

Discriminazione nei confronti delle donne da piccolo schermo (è la bionda, insulsa, signorina delle previsioni del tempo che andrà al Nord) e l’involuzione verso l’exploitation delle news appaiono come note al margine di questo ritratto, appassionato e austero allo stesso tempo, che condivide con gli altri film di Campos una sogge/oggettività un po’ opaca, rispettabile ma un po’ difficile da amare veramente.

Molto più frontale e avventuroso l’approccio di Robert Greene, documentarista anomalo, newyorkese anche lui, il cui Kate Plays Christine è stato presentato nel concorso nonfiction (dove ha vinto un premio speciale per la sceneggiatura) e sarà presto anche al Forum di Berlino. Come il film precedente di Greene, Actress, anche questo è incentrato su un’attrice (Kate Lyn Sheil), non alle prese con una crisi d’identità professionale ma con un ruolo ben preciso, quello di Christine Chubbuck. A cavallo tra documentario, fiction e true crime, filtrato dalla bellissima fotografia di Sean Price Williams, che cattura con raffinatezza i colori densi della Florida e inquadra «l’attrice» in una dimensione che ricorda più Cindy Sherman che John Cassavetes, il film di Greene «affonda» nel personaggio di Chubbuck sotto molti punti di vista, attraverso il processo di preparazione che Kate Lyn Sheil intraprende per interpretarla.

Interviste (ex collaboratori, «esperti», il negozio di pistole dove ha comprato il revolver..), esplorazioni di luoghi e di gesti, ricostruzioni drammatiche, si susseguono in un progressivo sovrapporsi e scollarsi, anche fisico (parrucca, lenti a contatto, la spray tan…) delle due identità. Sheil diventa, e fa sua, Chubbuck, davanti ai nostri occhi, mentre il film scorre verso l’inevitabile ultima scena. È lì che, forse, Greene perde la sua occasione più grossa, scegliendo di chiudere questo film, ricco di idee, possibilità, e di emozione, sull’attrice, piuttosto che sul soggetto della sua ricerca. Ma se il lavoro dell’attore, anzi dell’attrice, continua ad essere il centro dell’attenzione del regista, è il fantasma di Chubbuck – non la sua dimensione «meta» – che anima Kate Plays Christine.

È un’inafferrabilità completamente diversa quella trattata in un altro bel documentario visto in concorso quest’anno, Author: The JT LeRoy Story, di Jeff Feuerzeig (The Devil and Daniel Johnston). Prodotto, con un budget visibilmente considerevole, dalla ultra-hip piattaforme multimedia Vice e dal tycoon australiano delle case da gioco di lusso James Packer, anche Author lavora su molti linguaggi – animazione, ricostruzione drammatica, news, spezzoni di film, racconto personale- portando (come il film di Greene) una ventata di novità in una sezione che ha sempre interpretato in modo troppo letterale, addirittura televisivo, la nozione di cinema della realtà. A sconvolgerne l’idea stessa, è un clamoroso episodio di fiction (ma non frode, è la tesi del film) letteraria e cioè «il caso» di JT Leroy, il tormentato, giovanissimo, scrittore prodigio –amato da Gus Van Sant, Courtney Love, Lou Reed, Shirley Manson, co-autore di Elephant, portato al cinema da Asia Argento in The Heart Is Deceitful Above All Things e dietro a cui si nascondeva in realtà Laura Albert, una quarantenne di San Francisco, ex telefonista a luci rosse. Il film è raccontato dal suo punto di vista – quindi aperto a tutte le interpretazioni, e soprattutto le identità, possibili.