Lunedi 28 aprile e martedi 29, in occasione del bimillenario della morte di Augusto, si svolgerà al Collegio Ghislieri di Pavia un seminario interdisciplinare, organizzato da Maurizio Harari, sulla Mostra Augustea della Romanità del 1937, dal titolo: «Tutta Italia giurò nelle mie parole» (ulteriori informazioni e il programma delle giornate di studio sono disponibili ai seguenti indirizzi: www.ghislieri.it; ararat@unipv.it).

Anticipiamo in queste pagine l’intervento che terrà lunedì pomeriggio Giuseppe Pucci, archeologo emerito dell’Università di Siena e nostro collaboratore, dal titolo «La Mostra Augustea della Romanità: ideologia, estetica, comunicazione».

Il primo aspetto che intendo trattare a proposito della grande Mostra Augustea della Romanità inaugurata nel 1937 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, è quello dell’ideologia. Il fatto che il bimillenario della nascita di Augusto – 23 settembre del 63 a.C. – cadesse a poca distanza dalla ‘conquista’ dell’Etiopia e dalla riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma, rappresentò una ghiotta occasione per il regime. Va sùbito sottolineato che la Mostra non fu voluta da Mussolini, e neppure dal Minculpop, ma da studiosi e intellettuali, con in testa quel Giulio Quirino Giglioli che era stato il segretario della mostra archeologica organizzata nel 1911 dal Lanciani per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, e che essendo nel 1935 diventato deputato aveva accesso diretto al duce e alla sua segreteria personale. Giglioli era un formidabile organizzatore, una vera macchina da guerra, ma non avrebbe potuto realizzare un progetto così impegnativo senza la collaborazione entusiastica di un gran numero di studiosi. Come mai, ci chiediamo, tante intelligenze non mediocri – io stesso ho conosciuto bene sia Pallottino che Colini che Carlo Pietrangeli, vale a dire i tre che furono più vicini a Giglioli –; perché questi e altri studiosi di valore si fecero coinvolgere in quell’impresa e bruciarono incenso sull’altare della Romanità? Alcuni erano ferventi fascisti, e lo rimasero anche dopo la guerra, come Pallottino. Qualcun altro, certo, lo avrà fatto per opportunismo accademico, ma i più furono semplicemente sedotti dalla possibilità di parlare finalmente a un pubblico vasto, di ‘educare le masse’, di svolgere un ruolo incisivo nella società. Provarono insomma l’illusione di essere protagonisti di quel momento storico che esaltava l’antichità come premessa e promessa di un grande avvenire. Il grande avvenire non ci fu, ma come ha scritto Andrea Giardina, «gli archeologi… furono insostituibili nella delicata operazione di incastonare visivamente e materialmente l’antico nell’attuale, e contribuirono in modo determinante all’elaborazione di quell’estetica della romanità che era una componente essenziale della rivoluzione antropologica fascista». Va poi detto che collaborarono pienamente a questa celebrazione anche istituzioni scientifiche e studiosi di nazioni «democratiche» come la Francia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti (è noto per esempio l’entusiamo manifestato dall’archeologa inglese Eugenie Strong, grande ammiratrice di Mussolini). Unica eccezione rilevante fu la Russia, che non partecipò per ovvi motivi politici.

Rivoluzione e pacificazione

Ma a proposito dell’ideologia che presiedette alla Mostra, la chiave di volta fu certamente il parallelo tra l’impero romano e l’impero dell’Italia fascista. Il fascismo aveva bisogno di richiamarsi a un passato glorioso per legittimare il proprio ruolo: doveva cioè costruire un passato che potesse dare una coscienza di nazione al paese e convincere gli italiani che, in quanto eredi del più grande impero della storia, erano predestinati a conquistarne un altro. Le rivendicazioni «imperiali» per l’Italia, in nome della grandezza di Roma antica, erano già presenti – anche se in modi diversi – in Crispi e in Giolitti, e la Mostra archeologica del 1911, realizzata da Lanciani alla vigilia dell’impresa di Libia (e il Museo dell’Impero che ne fu la filiazione) preconizzavano chiaramente un nuovo impero italiano.
Ora il nuovo impero era acquisito, ma bisognava giustificarlo. La Mostra del ’37 servì in primo luogo a questo. A tal fine si equipararono le conquiste del fascismo alla stabilità data da Augusto a Roma dopo decenni di guerre civili, e si procedette all’assimilazione di Augusto e Mussolini. Giglioli nel suo discorso inaugurale fu esplicito: come Augusto, Mussolini ha attuato la rivoluzione e sùbito dopo la pacificazione, tanto che si possono riferire all’uno le parole che furono dette dall’altro, «per aver salvato i cittadini […]tutta Italia giurò nelle mie parole e mi supplicò di essere suo Duce». Il latinista Gino Funaioli stabilì un’equazione perentoria: «Augusto vale rivoluzione, innovazione, tradizione. Dare il colpo di grazia a ciò ch’è morto, rianimare le risvegliate idealità antiche, creare e ricreare: questo è fascismo».

Se sfogliamo le pubblicazioni scientifiche di quegli anni, vediamo che gli storici fecero a gara nel ricercare analogie fra Augusto e Mussolini. Entrambi – si sottolineava – avevano favorito la crescita demografica, difeso la morale e la famiglia, rilanciato l’agricoltura e i suoi valori, trasformato la milizia di parte in milizia nazionale, promosso grandiose imprese urbanistiche e architettoniche. In Augusto e Mussolini, apparso proprio nel 1937, Emilio Balbo – del quale non sono riuscito a stabilire se avesse legami di parentela con Italo – sosteneva addirittura la superiorità politica del duce: quando Ottaviano iniziò la sua avventura, infatti, «l’impero già esisteva di fatto e di diritto», mentre «ben diversa è l’opera ciclopica pensata ed attuata dal genio di Mussolini che, in un tempo brevissimo, di una Italietta […]agitata da continui disordini, ha saputo costruire un potente Impero senza produrre gravi scosse al Paese». E concludeva: «per cercare l’uomo paragone di Mussolini bisognerebbe chiamare in causa Giulio Cesare». Questo soprattutto perché mentre Cesare fu un grande condottiero, le vittorie militari di Augusto si dovettero alla bravura e all’esperienza di altri. Non c’è dubbio che le simpatie dello stesso Mussolini andassero a Cesare. Non tutti sanno che nel ’39 il duce scrisse un dramma in tre atti su Giulio Cesare in collaborazione con Giovacchino Forzano. Ma a rendere il parallelo con Cesare poco attraente per Mussolini c’era la fine infausta del dittatore romano, tant’è vero che nel dramma citato la scena del pugnalamento fu eliminata, presumibilmente per motivi scaramantici, e sostituita dal racconto di un messaggero, alla maniera delle tragedie greche. Tutto sommato, Mussolini trovò più confacente identificarsi sul piano militare con Scipione l’Africano, il condottiero mai sconfitto – e il famoso film del 1937 fu il suggello dell’operazione –, mentre sul piano politico si lasciò assimilare ad Augusto, vale a dire a un capo carismatico autorevole ma misurato. E soprattutto longevo.

Naturalmente tutta questa operazione si iscrive nella cornice più ampia del mito della romanità. Lo stesso Mussolini ebbe a dire – e la frase era riportata in epigrafe nella sala XXVI della Mostra –: «Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento, è il nostro simbolo o se si vuole il nostro mito». Basta pensare ai simboli del regime, a partire dal famoso fascio littorio; al titolo di duce, all’organizzazione della milizia, con le sue legioni, coorti, centurie, manipoli; a quella del lavoro, strutturata sul modello dei corpora e collegia di età imperiale; alle organizzazioni para-militari giovanili su quello della Iuventus augustea.

Ma la forza del mito, come ci ha spiegato Roland Barthes, consiste principalmente nel fatto che esso riesce a naturalizzare il contingente, nel senso di farlo percepire come un fatto naturale e, come tale, permanente. Proprio a questo serviva il mito di Roma per il fascismo: fare di esso non un accidente transeunte ma l’esito naturale – che dunque non poteva essere messo in discussione – di un processo che aveva salde radici nel passato. Perciò sarebbe riduttivo vedere la Mostra del ’37 come un evento effimero. Nella misura in cui costruiva la romanità come specchio del fascismo e delle sue ambizioni, essa forniva la giustificazione telelologica all’avvento e alla permanenza di esso e allo stesso tempo indicava nel nuovo imperialismo il destino manifesto – per usare un’espressione del lessico politico americano – dell’Italia.

Un percorso iniziatico

Veniamo ora al secondo punto: l’estetica della Mostra. Qui è importante a mio avviso partire da un fatto a cui normalmente non viene dato il giusto risalto, e cioè che nello stesso Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, cinque anni prima della Mostra Augustea, si era tenuta la Mostra della Rivoluzione Fascista, che aveva celebrato il decimo anniversario della marcia su Roma. Questa mostra aveva avuto un enorme impatto, sia per il contenuto che per l’allestimento, dichiaratamente futurista, a cominciare dalla facciata dell’edificio, costituita da un immenso cubo sovrastato da fasci stilizzati alti venticinque metri. Questa facciata mascherava quella originale di Pio Piacentini, che per il suo stile classicheggiante era stata ritenuta poco confacente. All’interno erano utilizzate – con un linguaggio d’avanguardia, che si ispirava, seppure con un rovesciamento ideologico, a esperienze di Weimar e dell’Unione Sovietica – diverse forme di espressione artistica (pittura, scultura, architettura, fotografia, grafica e arte applicata): una sorta di Gesamtkunstwerk di marca fascista. Artisti di punta come Mario Sironi e Achille Funi crearono una potente ‘macchina mitopoietica’, che tuttavia gettava anche un ponte tra rivoluzione e tradizione. Per esempio, proprio nella sala progettata da Sironi una spada romana, con incise le parole DUX e ITALIA, spezzava la catena rossa del socialismo, a simboleggiare che rinverdendo la gloria di Roma antica il fascismo aveva liberato l’Italia dalla morsa marxista-leninista. Ma soprattutto il percorso della mostra era stato studiato in modo tale da rendere la visita una sorta di cerimonia rituale.

La Mostra Augustea, pur nella sua specificità, non poté non tener conto di questo antecedente. Anche stavolta la facciata di Pio Piacentini fu camuffata, ma il flirt col futurismo ormai era finito, lo stile ufficiale era ora quello detto Novecento, e l’architetto Scalpelli creò una sorta di gigantesco arco romano stilizzato che proponeva un’idea quasi metafisica di romanità, molto simile a quella che caratterizzerà gli edifici dell’E42. I quattro grandi fasci del ’32 diventano quattro pilastri che sostengono dei prigionieri barbari, copie di quelli del Palazzo dei Conservatori. Sul fornice d’ingresso c’è il calco della Vittoria di Metz, mentre ai due lati abbiamo sei iscrizioni di autori classici e cristiani che esaltano la missione civilizzatrice di Roma. Sulla balaustra si ripetava per quattro volte la parola REX a sinistra e la parola DVX a destra. Rispetto alla facciata del ’32, che rompeva nettamente con la tradizione, questa del ’37 intende piuttosto interpretarla modernamente.

Con la mostra del ’32 quella del ’37 condivide anche le tecniche espositive innovative: l’ampio ricorso a disegni e fotografie, in particolare sotto forma di fotomontaggio, l’uso di testi e citazioni, una illuminazione accuratamente calcolata; mentre i calchi, con il loro bianco uniforme, diffondevano meglio di quanto avrebbero fatto gli originali un senso di rassicurante omogenità. E – cosa ancor più importante – come già nel ’32 il percorso era studiato per far sì che la visita si trasformasse in un viaggio iniziatico, tra indottrinamento ed emozioni estetiche e spirituali. La citazione di Mussolini sopra la porta di ingresso definiva ab initio la relazione tra passato, presente e futuro: «Italiani, fate che le glorie del passato siano superate dalle glorie dell’avvenire!». Le sculture e le iscrizioni sulla facciata e nel vestibolo completavano il messaggio, che poi era ribadito nell’Atrio della Vittoria, dove erano esposti la Vittoria bronzea di Brescia, rilievi con altri barbari vinti e ritratti di imperatori con corona civica a indicare il trionfo militare.

Proseguendo, il visitatore entrava in una sorta di spazio cerimoniale o rituale. In fondo all’asse su cui veniva ora ad affacciarsi, egli già scorgeva la meta, il punto focale del percorso: la sala di Augusto, e intravvedeva, su un podio colorato in rosso e inquadrata dal pronao del Monumentum Ancyranum e da due rilievi di Vittorie da Cartagine, la statua colossale del Genio di Augusto del Vaticano. Ma a quella meta non si accedeva immediatamente: sarebbe arrivata come promessa di una disciplinata perseveranza. Così, dopo aver fatto tesoro di un’altra citazione di Mussolini: «Io non vivo del Passato: per me il Passato non è che una pedana dalla quale si prende lo slancio verso il più superbo avvenire», si doveva tornare indietro e attraversare prima altre sette sale dove veniva esposta la storia di Roma dalle origini a Cesare. Questo era lo spazio più propriamente didattico.

Estetizzazione alla Benjamin

La climax sapientemente costruita culminava finalmente nella sala X, il cuore – come si è detto – della Mostra. Qui, oltre ad ammirare da vicino la statua del Genio di Augusto, il visitatore avrebbe scoperto alla sua sinistra l’Augusto di Prima Porta e a destra l’Augusto di via Labicana. Tre opere che riassumevano i ruoli più importanti del Principe: il benefattore che ha garantito l’abbondanza (la cornucopia), il capo militare (la corazza), l’autorità religiosa (il capo velato del Pontifex Maximus). Sulle pareti varie iscrizioni, tra cui il passo di Svetonio: «Tutti spontaneamente, con unanime consenso, lo salutarono padre della patria», a cui faceva da contrappunto un’altra frase di Mussolini: «Nella silenziosa coordinazione di tutte le forze, sotto gli ordini di uno solo, è il segreto perenne di ogni vittoria». L’assimilazione tra i due capi era a quel punto definitiva.
Tuttavia ciò che più attirava l’attenzione nella sala era una stele di vetro illuminata, in cui, con caratteri disposti in modo da formare la sagoma di una croce, si riportava il testo del Vangelo di Luca (2,1-14) relativo alla nascita di Gesù sotto il principato di Augusto. Questo oggetto di concezione assolutamente moderna affiancato alle statue antiche, creava, grazie anche alla luce soffusa irradiata dal soffitto e alle pareti praticamente prive di decorazione, uno spazio allo stesso tempo classico e moderno. Gli architetti Paniconi e Pediconi, allievi di Marcello Piacentini, seppero amalgamare il tutto in un’unità estetica molto coinvolgente, all’altezza dei migliori risultati della Mostra del ’32.

In questa sala X, dove insieme a un grande imperatore si celebrava il punto di svolta della storia dell’umanità rappresentato dalla nascita di Cristo, era stato creato con sobrietà di mezzi ma con grande rigore formale una sorta di spazio mistico, concepito in funzione di una comunità di adepti, di credenti, in cui lo stesso cristianesimo era politicamente inglobato. Giglioli affermerà che «la Chiesa Cristiana ha costituito la continuità di Roma attraverso il medio evo e nei tempi moderni», fino alla «piena rinascita nel Fascismo e nel nuovo Impero», e del resto una intera sala, la XXV, fu dedicata proprio al cristianesimo. Vi spiccava una traduzione dell’Editto di Milano, che aveva dato a tutti, anche ai cristiani, libertà di culto, prefigurando quei Patti Lateranensi per i quali Mussolini era stato definito dal cardinal Gasparri «l’uomo della Provvidenza».

Sùbito dopo la sala del cristianesimo veniva l’ultima sala del pianterreno, intitolata «Immortalità dell’idea di Roma. La Rinascita dell’Impero nell’Italia Fascista». Qui campeggiavano solo tre oggetti, nessuno dei quali antico: una replica (leggermente ridotta) della Vittoria scolpita da Attilio Selva per il mausoleo di Nazario Sauro, e ai lati, un busto di Vittorio Emanuele III e uno di Mussolini. Immortalità e rinascita erano rappresentate visivamente nel fotomontaggio che correva sulle pareti, e che – nelle parole di Giglioli – illustrava «l’idea imperiale romana tramandata quale fiaccola, di generazione in generazione, attraverso i secoli»: una sorta di summa teleologica, da Enea a Mussolini.
Insomma, la Mostra Augustea della Romanità sembra l’esemplificazione perfetta di quella estetizzazione della politica da parte del fascismo di cui parla Walter Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, scritto nel 1936 – solo un anno prima della Mostra. Per Benjamin il fascismo sfruttava l’arte per i propri scopi, producendo artificialmente una sorta di falsa aura attorno alla figura del Capo attraverso l’uso di mezzi di comunicazione moderni applicati a riti e culti radicati nel passato. L’estetizzazione della politica consisteva anche nella creazione di eventi spettacolari, con scenografie magniloquenti allo scopo di tenere le masse in uno stato di continua effervescenza.

Il marketing di Giglioli

E veniamo al terzo e ultimo punto: quello della comunicazione, comprendente in verità diversi aspetti tra loro collegati. L’inaugurazione – cominciamo da lì – fu un esempio di politica esteticizzata, con la ‘gioventù italiana’ del Littorio ad accogliere il duce sulla scalinata cantando Giovinezza, e Mussolini piazzato in piedi durante i discorsi, in modo da risultare perfettamente in asse con Augusto, ben visibile dietro di lui. In questo caso la comunicazione tra il capo e le masse fu diretta. Ma nella mostra ci furono altri brillanti esperimenti di comunicazione. Un opuscolo a firma di un certo colonnello Reisoli (un poligrafo molto attivo in quegli anni) si intitolava curiosamente Ciò che si ascolta nella Mostra Augustea della Romanità. Vi si alludeva alle iscrizioni della sala XXVI, dedicata all’immortalità di Roma e del fascismo, metaforicamente ‘risuonanti’ alle orecchie del visitatore. Qui – scrive Reisoli – «‘si ascoltano’ le parole definitive. Sono gli appelli alla patria di Dante, Petrarca, Leopardi, Carducci, sono le parole di guerrieri e di eroi. Lì Machiavelli ammonisce che “non l’oro, come grida la comune opinione”, è il nervo della guerra, “ma i buoni soldati, perché l’oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono ben sufficienti a trovare l’oro”». E conclude con le parole di Mussolini: «Non si fa della retorica se si dice che il popolo italiano è il popolo immortale che trova sempre una primavera per le sue speranze, per la sua passione, per la sua grandezza».

Ma non c’erano solo ‘voci’, in quella sala. C’erano grandi foto delle opere del fascismo (le bonifiche, le città di nuova fondazione come Littoria e Sabaudia), che dovevano una volta di più sottolineare le analogie tra l’antico impero e il nuovo, e c’era anche un quadro di Giuseppe Sciuti, pittore siciliano emulo di Alma-Tadema, raffigurante l’offerta dell’oro alla patria da parte delle matrone romane al tempo delle guerre puniche, con accanto la foto dell’offerta della fede da parte della Regina Elena. Giglioli si inventò anche le visite per i ciechi, che, essendo gli oggetti in mostra dei calchi, erano autorizzati a toccarli.

Anche nel campo della promozione e del marketing furono ricalcate le orme della Mostra della Rivoluzione Fascista, i cui organizzatori avevano sperimentato un sistema di incentivi e di facilitazioni, con sconti sui treni, i ristoranti e i teatri. Stavolta Giglioli andò oltre: fece diffondere volantini e manifesti nelle scuole, nelle stazioni, nei dopolavori, favorendo l’organizzazione di gite di gruppo nella capitale; per l’estero mobilitò ambasciate e consolati, si appoggiò a istituti stranieri a Roma, fece stampare guide in 24 lingue. L’istituto di Studi romani fece conferenze in Europa e in America e ci furono perfino degli «augustean pilgrimages». Naturalmente non mancò l’apporto della radio e del cinema. Uno spot radiofonico diceva: «Non devi essere un archeologo per essere interessato alla Mostra Augustea», e l’Istituto Luce ‘coprì’ efficacemente l’inaugurazione. Anche i Reali non si sottrassero alla visita, sempre accompagnati da Giglioli.

Complessivamente la mostra nei suoi 408 giorni di apertura fu vista da circa un milione di visitatori (di cui però solo 770.000 paganti). L’astuto Giglioli fece spostare il giorno di chiusura al 7 novembre 1938 in modo da accaparrarsi tutti gli ex combattenti venuti a Roma per la sfilata del 4 novembre, e la cosa funzionò talmente bene che l’ultimo giorno si staccarono addirittura 20.000 biglietti, ciò che consentì a Giglioli di annunciare che era stato raggiunto il sospirato pareggio di bilancio.

Finché restò aperta, la Mostra funzionò anche come fondale per le parate del regime e per eventi straordinari come la visita di Hitler, nel maggio ’38 – forse il punto più alto mai toccato dall’estetizzazione della politica. Il tragico errore del fascismo fu credere che alla romanità pomposamente messa in scena corrispondesse una realtà altrettanto grandiosa. Ma come in qualsiasi performance teatrale, c’è un momento in cui cala il sipario e le luci si spengono. E in questo caso non ci furono applausi.