«Abbiamo perso» e «è il momento più difficile della legislatura». In una sola giornata Matteo Renzi riesce a dire entrambe le cose. Un’intervista alla Stampa, la solita serie di retroscena ispirati da palazzo Chigi sugli altri grandi quotidiani, una lunga presenza in studio a Porta a Porta. Il premier si impegna al massimo per correggere l’ombra di negatività che per la prima volta circonda il suo governo e direttamente la sua persona, conseguenza del niente affatto brillante turno elettorale. Incassa però un buon successo nelle votazioni per il nuovo capogruppo del Pd alla camera.
Ettore Rosato succede al bersaniano Roberto Speranza che si era dimesso da ormai due mesi. La conta nel gruppo parlamentare restituisce un risultato tondo, al renziano vanno 239 voti su 309 deputati democratici. È un risultato persino migliore di quello ottenuto nel marzo del 2013, in apertura di legislatura, da Speranza, che mise insieme 200 voti su 297. Le votazioni nel Pd danno sempre risultati bulgari, anche se coprono dissensi che immediatamente dopo riprendono quota. Anche perché Renzi aveva avvertito i deputati della minoranza: «Speranza è una scelta di continuità, l’alternativa poteva essere riformare complessivamente il gruppo» raggiungendo «un nuovo equilibrio». Presto bisognerà rinnovare le presidenze delle commissioni e la minoranza non vuole perdere posizioni, anzi gradirebbe allargarsi.

Le difficoltà per il presidente del Consiglio non sono però finite con i ballottaggi, prova ne sia la clamorosa retromarcia che è costretto a ingranare sulla scuola. E nei momenti di difficoltà scatta automatico il tentativo di recuperare le presunte virtù delle origini, così Renzi confida alla Stampa l’intenzione di abbandonare il Renzi 2 per tornare al Renzi 1, che è poi il Renzi che non fa mediazioni che non abbiamo smesso di vedere all’opera. Ma nel ritorno alle origini c’è un’eccezione: le primarie. Che il presidente del Consiglio a questo punto gradisce poco, preferendo riportare in capo al vertice del partito il potere di scegliere i candidati. Lui non avrebbe scelto De Luca in Campania, non avrebbe scelto Casson a Venezia, probabilmente non avrebbe scelto nemmeno Paita in Liguria. «In alcune città e regioni le primarie non hanno funzionato», conferma il premier a Porta a Porta, ultima tappa di un’offensiva mediatica lunga un giorno. Ma aggiunge: «È importante che quanto si tratta di scegliere i candidati per la guida del paese siano i cittadini a scegliere».
Ieri pomeriggio Renzi ha fatto un rapido passaggio all’assemblea dei deputati Pd, avvertendo subito che non avrebbe parlato delle elezioni, «non riapriamo la discussione fatta in direzione». Ma quella direzione, dove pure si era discusso pochino, era stata fatta prima delle sconfitte ai ballottaggi. La tappa a Montecitorio è servita al premier per lanciare la candidatura di Rosato, partito come consigliere comunale della Democrazia cristiana a Trieste, passato per una doppia sconfitta alle provinciali nel 2001 e alle comunali nel 2005, arrivato ad essere capofila dei deputati renziani e uomo d’ordine alla camera.
«Ho fatto l’errore di non aver messo renziani al partito» è una delle frasi – riferite – del presidente del Consiglio ai deputati. Verità assai discutibile, eppure rivelatrice dell’intenzione di riscoprirsi leader del Pd oltre che primo ministro. Un cambio di posti nella segreteria nazionale è in programma da tempo, ma è assai improbabile che quell’istanza che in questi mesi è stata nulla più di una folcloristica riunione all’alba potrà trasformarsi in qualcosa di più serio nel partito del leader.

Seria è invece l’intenzione di stringere le maglie del dissenso nei gruppi parlamentari, in vista dei passaggi delicati al senato della scuola, della Rai e della riforma costituzionale. Lo strumento individuato dovrebbe essere la modifica degli statuti delle delegazioni parlamentari, operazione che non richiede tempi troppo lunghi; in prospettiva poi dovrebbe arrivare la legge sui partiti di «attuazione» dell’articolo 49 della Costituzione. E di se stesso Renzi dice: «Andrò a casa se perderò le elezioni per il governo. O nel 2017 se dovessi perdere il congresso del Pd». red. pol.