Ogni volta che Marco Bellocchio si avvicina al palcoscenico, finisce per confermarsi autorevolmente «altro» rispetto a quel linguaggio, eppure sempre capace di lasciarvi una personalissima impronta, di un fascino tutt’altro che parziale. Così che un suo Rigoletto a Piacenza aveva tutto il denso fascino noir di un film anni ‘40/’50, o si può ricordare il Macbeth sanguinoso quanto pensoso all’India, o una recente riscrittura dell’Oreste di Euripide in una prospettiva «sessantottina».

Ora il regista ha lavorato su un autore quasi sacro del ‘900, Anton Cechov, davvero il padre nobile del teatro di tutto un secolo. Arriva così in scena Zio Vania (al Quirino fino a domenica 15), mesto e commovente risveglio di primavera nella desolata campagna russa, dove le passioni covano e sfidano il tempo, per poi esplodere senza che nulla cambi o si realizzi. Un testo fascinoso e struggente, che emoziona e rende partecipi, per poi far ricadere quelle creature nella vita di sempre, senza che nulla delle loro esistenze possa essere cambiato, neppure da quelle momentanee esplosioni d’amore.

Una economia di sentimenti che valeva allora in epoca zarista e prerivoluzionaria, ma che ci parla ancora oggi in maniera vibrante. In questo eterno passaggio irrisolto dal «vecchio» al «nuovo», o almeno al suo barlume che sembra sempre di intravedere, continua a far danno la prosopopea di intellettuali fasulli, la vanità del potere di seduzione, illusioni e amori covati e mai verificati, i rapporti brutalmente economici di eredità drammaticamente dimagrite in un mercato che non sente ragioni. L’ingiustizia assoluta, dei rapporti affettivi prima ancora di quelli sociali che pure li condizionano, in Cechov si fa commedia dell’umana infelicità.

È questa la vicenda di Vania e della sua complessa famiglia, nella sterminata e ovattata campagna russa. La grande casa avita dove Vania, con la signora madre (col fiero cipiglio di Lucia Ragni), la nipote Sonia, la fida servitù e una corte di vicini, passa il tempo a far conti e a sognare un improbabile domani, diviene la grande cornice lignea (disegnata da Gianni Carluccio) di quel sogno irrealizzabile: una dimora molto russa dai tratti tombali.

Il ritorno del cognato, fatuo intellettuale che si illude al di sopra delle proprie possibilità, con la nuova moglie, giovane e affascinante straniera succeduta alla morte della precedente, porta per un momento la speranza del cambiamento. Ognuno tira fuori sentimenti fino ad allora repressi, nessuno dei quali però è destinato a realizzarsi. Non quello della figlia Sonia (Anna Della Rosa, bravissima per quanto concentrata nell’imbruttirsi), che ama il giovane medico Astrov (Piergiorgio Bellocchio, attore in crescita), il quale a sua volta sbanda verso la giovane moglie straniera del vanesio Serebriakoff.

Verso la quale pende anche, vistosamente, il povero Vania. La bella fatale (Lidiya Liberman) non si sottrae del tutto a quei corteggiamenti, dando origine a una tragedia montante, conclusa a colpi di pistola da parte di Vania contro il vacuo cognato. È un duello non solo di «ditta»: Michele Placido dà a Serebriakoff tutta la vanesia superficialità di cui è costituito; Sergio Rubini invece carica il personaggio di Vania di una serie di tic e nevrosi (in qualche modo simili ai suoi ultimi personaggi cinematografici) che sembrano poco coerenti con la finale, mortifera, ripresa dello status quo.

La coppia vanesia, fallito il tentativo di vendere la tenuta che è il segno identificativo (oltre che la fonte di sussistenza) di tutta la famiglia, se ne riparte per sempre, e gli altri tornano agli usati «trastulli»: fare i conti, aspettare il passar del tempo, soffrire per quella sconfinata ignavia. Ma nel frattempo, rispetto a tanti altri celebri Zio Vania, Bellocchio ha fatto emergere ed esplicitato la pulsione erotica dal non detto in cui viene di solito ovattata. Ed è proprio quella carnalità pressante, sotto la lente della regia, a renderci vicino quel dramma quietissimo. Insieme alla sua sconfinata malinconia.