Prima la legge o prima la riforma? Calendarizzare subito, al Senato, l’Italicum oppure piazzarlo nel congelatore e procedere prima con la cancellazione del bicameralismo? Matteo Renzi non ha ancora risolto il dilemma e non si tratta di un particolare secondario: dalla scelta potrebbero dipendere il suo futuro politico e la sorte della legislatura.

I senatori del Pd, quasi tutti della minoranza, insistono perché il velocista surgeli la legge elettorale e passi a eliminare il Senato. Si eviterebbe così il rischio di due camere elette con leggi elettorali opposte. Identico suggerimento è arrivato dal Quirinale, il cui inquilino non sarebbe affatto propenso a convocare gli elettori con leggi elettorali contraddittorie. Lo stesso Renzi e i suoi collaboratori stretti, pur non avendo ancora deciso, sono propensi a seguire il consiglio, anche perché metterebbero così il governo al riparo dal rischio che correrà con le elezioni europee.

«E’ evidente che se le europee vanno male salta tutto», confessava candido qualche giorno fa Roberto Formigoni. In effetti non sarebbe facile per un premier che nessuno ha eletto continuare come se nulla fosse ove il popolo votante gli mostrasse il pollice verso, e sarebbe quasi altrettanto arduo tirare avanti con una maggioranza composta tutta da partiti presenti in parlamento ma inesistenti nel Paese, cioè al di sotto della soglia di sbarramento del 4%. Il passaggio dell’Italicum al Senato è forse lo scoglio principale per affrontare la prova delle urne da una posizione di forza. A palazzo Madama la partita sarà molto più difficile che a Montecitorio. Il voto è palese, e questo in linea di massima è un vantaggio (ma sulle quote rosa è al contrario garanzia di modifica del testo uscito dalla Camera). In compenso i numeri sono da brivido: se alla Camera l’asse Pd-Forza Italia poteva reggere l’urto di un centinaio di assenti e franchi tiratori, al Senato ne basterebbero dieci per affondare i cardini della legge: soglie di sbarramento e preferenze.

I segnali della vigilia non sono confortanti. Anche ieri la minoranza Pd, per bocca di Cuperlo, ha confermato che la legge dovrà subìre modifiche serie e il leader dei Popolari Mario Mauro è andato ben oltre: «Nella sua metafora calcistica Renzi ha dimenticato che le partite si concludono alla fine del secondo tempo. Manca ancora un tempo, quello del Senato, dove la panchina di Renzi è più corta». Di certo la legge cambierà sul fronte della rappresentanza di genere, dove il passaggio della divisione 60/40 dei capilista maschi e femmine è già data per scontata. Però la commissione Affari costituzionali e l’aula potrebbero riservare ulteriori e per Berlusconi meno digeribili sorprese. A quel punto le elezioni europee inizierebbero a somigliare da vicino a una roulette russa.

Anticipare la riforma del Senato aiuterebbe ad aggirare la minaccia. Si configurerebbe però una minaccia meno immediata ma ancor più esiziale. Il progetto di riforma che il governo si accinge a presentare ha poche possibilità di passare: come se non bastasse la comprensibile ritrosia dei senatori a eseguire su se stessi la sentenza capitale, si aggiunge un testo fragile, che fa acqua da tutte le parti. «E’ una specie di replica della Conferenza Stato-Regioni assolutamente inutile», commentavano ieri parecchi forzisti nei corridoi di palazzo Madama. Con l’aggiunta, spesso, di un tassativo: «Così io non la voto di certo».

Va da sé che se la riforma del bicameralismo affondasse nella palude del Senato, la legge elettorale faticosamente approvata a Montecitorio si trasformerebbe seduta stante in carta straccia, e l’eventualità di votare per entrambe le camere col Consultellum, già piuttosto alta nelle quotazione dei bookmakers politici, diventerebbe una certezza. Nei prossimi giorni Renzi il giocatore d’azzardo dovrà decidere su che tavolo giocare una partita che comunque ha per posta in gioco la sua testa.