Perché fare un film sul Mah Jong? Ce lo spiega Il drago di Romagna – docu-fiction di Gerardo Lamattina e frutto di una co-produzione italo-cinese tra POPCult e Micromedia Communication Italy – che da stasera debutta su grande schermo al Cinema Jolly di Ravenna, in occasione del Capodanno cinese, per inaugurare un lungo tour distributivo: Bologna, Milano, Prato e Roma (gli aggiornamenti delle sale li trovate sulla pagina Facebook del film).

Ci troviamo a Ravenna, città italiana con il più alto numero di giocatori di Mah Jong.
Tutto ha inizio con Luisa, anzi «la Luvisa» (da leggere con rigorosa S marcata), «azdora» con una passione sfrenata per il Mah Jong. La donna, finalmente in pensione, trascorre intere giornate (tra una sfoglia di cappelletti e l’altra) a organizzare sedute di gioco con Tiziana, Rita e Patrizia, amiche di una vita. Un po’ sulla falsariga di Jessica Tandy e compagne in A spasso con Daisy.

Sempre più interessata a esplorare le origini di quella che ormai è diventata pura ossessione quotidiana, Luisa intraprende un percorso filologico per carpire le sfumature che si celano dietro uno svago diventato unica ragione di vita: il marito è scomparso prematuramente e poco prima della sua perdita avevano addirittura pianificato un viaggio in Oriente.

Con la complicità del nipote Riccardo (Riccardo Pierpaoli) e di Lou (Ying Lou Zhou), amica cinese del ragazzo, la donna comincia a scavare tra memoria e leggenda. Aiutata da esperti del settore, tra cui Sergio Mastromarino (massimo esperto di Mah Jong in Italia), Luisa entra in contatto col maestro Wang, insegnante di cinese, e soprattutto con Vanessa Valvassori, discendente di una storica famiglia ravennate di ebanisti, propugnatrice del Mah Jong nostrano.

Lungo il cammino si inseriscono l’immatura Donatella (Fabiola Ricci), voce narrante della storia e figlia della protagonista, con la quale si scontra spesso: «Che famiglia di merda» tuona Luisa quando vede sfumare davanti agli occhi la possibilità del tanto agognato viaggio in Cina a causa delle scelte bislacche della figlia; la signora Ling (Feng Linzhen), mamma di Lou, quintessenza dell’asiatica granitica, soprattutto nei confronti della ragazzina, interessata più al Mah Jong che alle materie scientifiche o alle lingue: «Devi studiare! Impara l’italiano invece di perdere tempo con queste inutilità!» le dice con tono imperioso; e una buffa troupe orientale intenta a raccogliere interviste sul gioco, realizzate ai passanti in strada.

Dopo le esperienze accanto Pupi Avati (Dichiarazioni d’amore) e Carlo Mazzacurati (Vesna va veloce), e il debutto nel lungometraggio con Cimitero azzurro (2017), Lamattina tenta un esperimento – scritto con Federica Cervellini e Chi Hai – che fornisca spunti di riflessione legati all’integrazione culturale attraverso il divertimento.
Il drago di Romagna, infatti, punta a un rinforzo di esportazione cinematografica con la Cina – lo dimostra la presenza di Weishi Italy (creata da Micromedia Communication), piattaforma online dedicata alle comunità cinesi residenti nel territorio italiano.

È un esperimento, e come tale bisogna muoversi con delicatezza per quello che si vuole proporre al pubblico, ovvero bilanciare sapientemente gli ingredienti per non creare scompensi, a volte banali e fastidiosi, altre pericolosi e compromettenti.
Il regista, però, è riuscito nella scommessa, fondendo due piani narrativi giostrati tra commedia frizzante e storia informativa con alla base la celebrazione di un famoso gioco da tavolo orientale.

Che cos’è il Mah Jong?
Nato in Cina a metà del XIX secolo, tradotto letteralmente come «passero che battibecca» o «passero amico», il Mah Jong ha fatto la fortuna degli americani prima (negli Stati Uniti è chiamato Mahjongg), e degli italiani poi, grazie al ravennate Michele Valvassori, che nel 1923 ideò una variante ridisegnata sulla base di quella originale, aggiungendo stecche divisorie sfruttando l’uso del tavolo (non contemplato nella versione cinese), semplificando le regole di svolgimento e sostituendo il bambù con resistentissima resina bianca per la realizzazione delle tessere (nella versione europea sono 144 per 4 giocatori) ordinate in «semi»: canne/bambù, palle/cerchi, caratteri/ideogrammi, stagioni/professioni, venti, fiori e draghi. Lo scopo è quello di creare più combinazioni possibili (tris, scale, coppie) con le proprie tessere per arrivare alla vittoria.

Tornando al film: se gli aspetti documentaristici si risolvono perlopiù con interventi dal gusto classico, il blocco preponderante della fiction, al cui centro c’è l’universo di Luisa, viene posto in una dimensione dalle sfumature favolistiche con variegature pop: i coloriti carteggi via sms tra la protagonista e le amiche, a suon di emoji e frasi ruspanti come «stai ancora facendo i caplèt?»; i surreali intermezzi canori con Donatella e il guru (Lorenzo Golinelli); gli incalliti giocatori seduti in piscina con tanto di tavolo «acquatico»; la presenza onirica del defunto Arturo (Michele Gaudenzi), consorte e angelo custode di Luisa che la incoraggia nelle proprie scelte: «Ok Arturo, basta! Parto per la Cina. E ci vado in macchina!».

A sigillare il tutto troviamo proprio lei, «Luvisa l’azdora», colonna portante della famiglia – interpretata dalla verace Dilva Ragazzini – effervescente mattatrice dalla lingua saettante, ma dal pensiero quadrato. Gioca a Mah Jong e impasta piadine con uguale naturalezza. Sanguigna e spontanea, nei suoi occhi si può realmente scorgere lo sguardo smaliziato di «una bambina che si diverte a giocare coi draghi». Non a caso la sua tessera preferita è il «drago rosso», contraddistinta dall’ideogramma «Zhong», ovvero «centrare»/«colpire nel segno».

Ed è questo l’intento del film, sottolineare – grazie all’espediente ludico – come un passatempo radicato in comunità apparentemente non dialoganti, possa tramutarsi in rituale aperto alla condivisione più pura e naturale.
Quale integrazione migliore se non quella di far convivere, lungo le vie di Ravenna, tornei di Mah Jong accompagnati dalle note di Romagna mia eseguita in cinese?